Tanti anni fa, due amici più grandi di me mi propongono di fondare un Gruppo archeologico. Io non sapevo neanche cosa voleva dire, ma ero curioso e così questa avventura è cominciata. Dopo aver coinvolto anche altri, è cominciata la formazione di base: la domenica mattina, si andava in campagna, a fare le ricerche di superficie. Si sceglieva un campo arato ed erpicato e si camminava in lungo e in largo, guardando il terreno in cerca di reperti che l’aratro aveva riportato in superficie. In genere, se eravamo fortunati, potevano essere frammenti di selce o di ceramica che, una volta lavati, ci venivano spiegati dai più vecchi.
Dopo qualche mese di ricerche, uno dei vecchi dice che il maestro Renato Perini (famoso archeologo di Trento) vorrebbe/potrebbe venire a continuare uno scavo già aperto al Lavagnone. Il dott. Richter, presidente dell’Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo, benemerito e lungimirante, si dichiara subito pronto a garantire le spese per l’alloggio, presso la Locanda al Cacciatore, per il Maestro e i suoi due assistenti.
Lo scavo durò due settimane, le ultime di giugno del 1978.
L’ultimo giorno, mentre ci stavamo preparando a chiudere, dal fondo dello scavo uscì un urlo di Ettore: “Maestro! G’ho troàt l’aratro!”. E infatti era così: adagiato sul fondo della palude, tra i pali delle palafitte, abbandonato da circa quattromila anni, conservato dall’acqua torbosa; aveva trovato un magnifico aratro.
Non sapevamo ancora di aver assistito ad un momento storico. Si è saputo dopo che quello che vedevamo là sotto era l’aratro più antico del mondo.
Non c’era tempo per asportarlo. Dunque, il Maestro diede disposizioni per ricoprirlo adeguatamente, perché si sarebbe conservato meglio nel suo ambiente.
Una volta tornato a Trento, cominciò l’iter per il restauro: accordi con un laboratorio di adeguata capacità, ricerca di fondi ecc.. Poi, il nostro aratro è partito per iniziare la sua seconda vita e, dopo più di dieci anni di cure, è tornato a casa, ospitato in una bella vetrina, in un contesto degno della sua unicità in un museo realizzato per accoglierlo.
La prima cosa che ho capito, da quell’esperienza, è stata che l’obiettivo dell’archeologia non è recuperare e collezionare oggetti abbandonati millenni fa, ma capire come vivevano i nostri antenati.
A distanza di tanti anni, ho capito anche che siamo abituati a pensare al passato in rapporto ai grandi monumenti (piramidi, anfiteatri, palazzi) che erano il risultato del lavoro di migliaia di operai di cui non sappiamo niente. Qui abbiamo trovato gli strumenti di lavoro di gente semplice, che coltivava la terra per procurarsi il pane: gente ingegnosa che aveva scoperto il modo di fare meno fatica migliorando la resa delle coltivazioni a vantaggio delle famiglie e della comunità.
Anni fa ho conosciuto un archeologo inglese che sosteneva una teoria singolare: i palazzi monumentali, le regge dei principi, le costruzioni complesse sono state costruite dai ricchi grazie ai sacrifici dei poveri. I grandi palazzi sono stati pagati dalla comunità per il beneficio di uno solo: con la costruzione dei primi palazzi la gente ha cominciato a diventare più povera.
Ma al Lavagnone non c’erano palazzi: c’erano solo palafitte, stoviglie, attrezzi, resti di pasto che documentano la vita semplice, operosa, certamente difficile e, perché no, felice di chi ci abitava.
Quell’archeologo mi aveva anche insegnato un proverbio inglese: “Il contadino non lavora per suo figlio, ma per il figlio di suo figlio”. Questo atteggiamento è il frutto di un’esperienza plurimillenaria, di fatiche tramandate, insegnamenti che hanno origine in tempi remoti, quando era già evidente che le risorse non sono infinite, e dovranno bastare anche per le generazioni future. Lavora la terra rispettando la Terra: quel che facevano al Lavagnone.