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L’Anno Santo del 1975, vissuto da Paolo VI come occasione di dialogo

A Roma l’incontro delle grandi religioni

Aveva scelto il nome dell’«apostolo delle genti», Paolo VI, Giovanni Battista Montini, quando nel giugno del 1963 era stato chiamato a raccogliere l’eredità di Giovanni XXIII. E avrebbe infatti viaggiato moltissimo, quasi a dare il senso dell’apertura promossa dal Concilio Vaticano II, da lui concluso nel dicembre 1965, nel tentativo di allargare il dialogo col mondo non cattolico, ma anche non cristiano. E sotto questo segno si sarebbe aperto anche il Giubileo del 1975. Pare che il Papa avesse nutrito qualche dubbio, e lo aveva detto chiaramente nel discorso tenuto all’udienza generale nella Basilica vaticana il 9 maggio 1973: «Ci siamo domandati se una simile tradizione meriti di essere mantenuta nel tempo nostro, tanto diverso dai tempi passati». Una diversità dovuta da un lato allo stile religioso imposto dal Concilio Vaticano II, dall’altro al «disinteresse pratico di tanta parte del mondo moderno per espressioni rituali d’altri secoli». Il precedente Giubileo, quello di Pio XII, era stato uno straordinario successo; ma esso sembrava lontano un secolo, considerati i venti di contestazione che avevano colpito anche la Chiesa. Alla fine, però, Paolo VI si era deciso: il Giubileo si sarebbe svolto non solo perché si inseriva coerentemente nella linea spirituale del Concilio stesso, ma anche perché poteva contribuire a ridimensionare l’isolamento nel quale l’incalzante modernità aveva spinto la Chiesa. Bisognava rifare l’uomo dal di dentro, quell’uomo che il vortice del lavoro aveva ridotto in uno stato di preoccupante alienazione, un essere che «gode e si diverte» e subito si sente «annoiato e deluso». L’altro tema di quell’Anno Santo era la riconciliazione, fra i cristiani delle diverse confessioni innanzitutto; e qui Paolo VI si inseriva nel solco della sua azione di dialogo e di «disgelo», che aveva portato buoni frutti anche con la diplomazia sovietica. La bolla di indizione fu caratterizzata da alcune importanti novità: diventava sufficiente compiere un pellegrinaggio a una sola basilica patriarcale, oppure a un’altra chiesa della città di Roma, e partecipare devotamente a una celebrazione liturgica, specie la Messa. Oppure i pellegrini potevano visitare «in gruppo o singolarmente una delle quattro basiliche patriarcali, e quelle solamente, ed ivi attenderanno per un congruo periodo di tempo a pie meditazioni, concludendole con il Padre Nostro, con la professione di fede in qualsiasi legittima forma e con l’invocazione alla Beata Vergine Maria». L’apertura della Porta Santa, trasmessa per la prima volta in Mondovisione, slittò al di fuori dei binari del protocollo: si vide il Papa che alzava le braccia in un gesto di difesa contro la caduta di pezzi di calcina, perché, dopo i rituali tre colpi sulla porta sigillata, il muro era stato rimosso in maniera malaccorta dagli operai, e s’era così alzata una nuvola di polvere nella quale papa Montini parve scomparire. L’Anno Santo prese comunque il via regolarmente e il Pontefice poté imprimergli fin dall’inizio lo spirito del dialogo interreligioso, in una misura quale mai s’era mostrata nei precedenti Giubilei. La notte del 24 dicembre, infatti, al temine della Messa natalizia, Paolo VI volle incontrare un gruppo di buddisti giapponesi invitati dal Segretariato per i non cristiani, un organismo da lui stesso voluto; e il 1° gennaio ricevette i membri del Comitato internazionale di collegamento tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo mondiale, ai quali dichiarò il pieno rigetto «di ogni forma di antisemitismo, e l’invito che noi abbiamo lanciato a tutti i fedeli della Chiesa cattolica perché si mettano in ascolto per apprendere le caratteristiche essenziali con le quali gli ebrei stessi si definiscono». Era un passo significativo, che Giovanni Paolo II avrebbe approfondito, nel 1986, con la visita alla sinagoga romana. Ma quell’Anno Santo fu tutto un susseguirsi di iniziative ecumeniche. Nell’incontro con Gyala Karmapa, rappresentante del buddismo tibetano, il Papa espresse la sua «sincera ammirazione per il buddismo nelle sue varie forme e per il suo contributo per l’elevazione spirituale dell’uomo». E il 14 dicembre 1975 celebrò il decimo anniversario dell’atto di fraternità che aveva sciolto la secolare inimicizia tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, con la cancellazione delle reciproche scomuniche. Paolo VI volle compiere un gesto di umiltà inconsueto e baciò, sorprendendo anche l’interessato, il piede del metropolita Melitone di Calcedonia, capo della delegazione ortodossa. Il 24 dicembre 1975 il Papa donò l’indulgenza plenaria anche a coloro che seguivano il rito di chiusura attraverso radio e televisione, che si aggiungevano alla cifra record di quanti vi avevano partecipato fisicamente: circa dieci milioni di persone, secondo stime della Santa Sede, il numero più alto di pellegrini mai raggiunto in un Giubileo. A rito concluso si trasportò nelle Catacombe di San Callisto una sfera di argento e bronzo, con al centro un piccolo cero acceso dal Papa, destinata a rimanere lì fino al Giubileo del 2000. Questo sarebbe però stato preceduto da un altro Anno Santo straordinario, voluto da Giovanni Paolo II e annunciato – ancora una volta tra la sorpresa generale, come era avvenuto per quello di Pio XI nel 1933 – il 26 novembre 1982 ad un’assemblea plenaria di cardinali. Era la celebrazione del 39° cinquantenario dalla morte di Cristo, in linea con l’esortazione di Wojtyla ad «aprire le porte al Redentore», pronunciata subito dopo la sua elezione nel 1978. E Aperite portas Redemptori fu difatti il titolo della bolla di indizione, pubblicata il 6 gennaio 1983. Vi si affermava che la privilegiata condizione dei cattolici andava rafforzata «col pensiero, con le parole, con le opere», senza le quali non solo «non ci si può salvare, ma anzi si sarà più severamente giudicati». Questa celebrazione straordinaria del Giubileo ebbe anche una durata altrettanto straordinaria (25 marzo-22 aprile, un anno e 27 giorni), scandita da numerose canonizzazioni e beatificazioni, tra cui la beatificazione di novantatré martiri della Rivoluzione francese e di due missionari vittime nel 1930 dei comunisti cinesi. L’Anno Santo finì con un altro appuntamento eccezionale: il Giubileo dei giovani, che si svolse dall’11 al 15 aprile. Essi erano chiamati dal Papa a «svolgere un’azione di denuncia contro i mali di oggi», innanzitutto contro quella che Wojtyla definì la «cultura della morte, che almeno in certi contesti etnico-sociali (per fortuna non dappertutto), si rivela come un pericoloso piano inclinato di scivolamento e di rovina».Giuliano Polidori

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