La notte a Mary trascorre indolore, la stanchezza ci sopraffà senza darci nemmeno la possibilità di renderci conto dello sbalzo di realtà che ci circonda.
Causa visto, non possiamo entrare in Uzbekistan prima del 29, il che significa trascorrere obbligatoriamente un’altra notte in questo limbo di anacronistici totalitarismi. Rassegnati, partiamo così alla volta di Turkmenabat, a pochi chilometri dal confine. La strada migliora sensibilmente, ma gli incessanti avvallamenti sfiniscono le nostre cinghie liberando una ruota dal tettuccio e lasciandola quasi appoggiare sul braccio di Edoardo che se ne penzola al sole fuori dal finestrino posteriore.
Non appena Dede realizza con un certo stupore di avere un pneumatico sull’avanbraccio, inchiodiamo nel nulla per rimediare al cedimento e lì finalmente comprendo perché in Turkmenistan vi sia lo Zoroastrismo. È evidente che al tempo Zoroastro sia stata l’unica divinità a farsi carico di una situazione simile. La mole di lavoro da sostenere deve aver spaventato qualsiasi altro Dio.
Mentre un team di spagnoli ci sorpassa col sorriso di chi è ben felice di non essere al tuo posto, ripartiamo circondati da dune di sabbia, la quale in questo tratto di strada sembrerebbe aver dato scacco all’inospitale steppa.
Turkmenabat, in pieno stile sovietico, si presenta con un maestoso vialone d’accesso costellato di palazzi governativi dalla mole immensa. Sulle facciate e nelle piazze le statue e le foto del presidente s’impongono alla vista dei passanti su ambo I lati. Ovviamente, e in altrettanto stile sovietico, tutto ciò che non vien toccato da questo vialone da parata risulta essere semiabbandonato e fatiscente. Deduco che quelle devono essere zone dove il presidente non guarda mai. L’hotel dove ci fermiamo è proprio uno di questi palazzoni dalla facciata in finto marmo e dalle ringhiere in altrettanto finto oro. La scalinata d’accesso è da festival di Sanremo e in tutta risposta, come da copione, nelle camere manca l’acqua calda. Piccolo assaggio pratico dei residui dittatoriali.
Dopo un po’ di riposo, un giro al bazar e qualche piccolo lavoretto di restauro alla Peggy, arriva ora di cena, ovviamente non prima di aver irreparabilmente danneggiato il nostro unico crick idraulico.
Mi ero scordato il piacere di parlare russo e ancor più mi ero scordato il piacere di parlar russo, seduto tra vodka, pomodori e cetrioli in salamoia. Intorno a noi dei doganieri grassi e scuri scommettono soldi al tavolo da biliardo, la televisione sopra le nostre teste trasmette a intermittenza un film porno e la replica delle Olimpiadi. Noi sediamo con un paio di autoctoni tra brindisi, volgarità e quella sensazione d’amicizia che può nascere solo ed esclusivamente attorno ai tavoli di questi paesi. Il barista indossa una maglia di Topolino e prepara la pizza, mentre la palla strobo appesa al soffitto lo fissa immobile; chissà da quanto tempo non vive il suo tempo delle mele.
Filippo un giorno, nel bel mezzo dell’Iran, disse che prima o poi, usciti dall’islam profondo, l’alcool sarebbe rientrato a gamba tesa. Direi che fu profetico.
Ma il lato positivo è che oggi posso autorevolmente sconsigliare a chiunque di affrontare una frontiera con 38 gradi, cinque ore di sonno e dei postumi da vodka. D’altra parte paese che vai, usanza che trovi.
Fortuna ha voluto che in frontiera i militari al controllo-passaporti ci abbiano preso subito in simpatia, alleggerendo di non poco il peso della serata precedente. Mentre un altro team d’Italiani si avvicina ai cancelli, mi trovo improvvisamente a far da interprete di dogana,disturbato da un poliziotto che cerca di distrarmi dal mio nuovo dovere, mostrandomi video di sketch comici o presunti tali. Peri camionisti sono ormai un collega.
Mentre decine di vespe volano e nidificano in ogni dove, un bambino con la maglietta del Milan e un colbacco ci saluta. Questo si che è “meltingpot”.
“Do svidanija Zoroastro”.
Andrea Trolese
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