Centocinquantaquattro anni fa, esattamente il 10 aprile 1848, al grido di «Dio lo vuole! Ma Radetzky no!», come incideranno gli austriaci su una moneta del tempo, i volontari guidati la Luciano Manara attaccarono la grande polveriera ubicata nel comune di Cavalcaselle. Si trovava esattamente sulla strada che da Colà porta in località Confine, sulla sinistra, in direzione Castelnuovo-Testi, poco prima dell’incrocio con la strada che conduce ai grandi parcheggi del parco di Gardaland. E proprio lì, sul lato destro della strada, nel 154° anniversario dei tristi fatti di sangue della grande battaglia di Castelnuovo, il gruppo di ricerca Rerum Memoria, guidato dal maestro Sergio Girardi, ha collocato un cippo marmoreo a perenne ricordo «affinché i giovani sappiano e i non più giovani ricordino». E anche quest’anno, proprio al cippo della memoria sono stati deposti dei fiori. «Non c’è bisogno di atti o azioni sublimi» spiega Sergio Girardi, «ma solo attimi di ricordi che si protraggano nel tempo della memoria». «È importante però» prosegue, «che si conosca la storia vera di questa azione patriottica». E allora ecco riassunta l’azione del 10 aprile 1848 alla polveriera: Luciano Manara si stava dirigendo in Tirolo al comando di una delle quattro colonne di volontari. Il mattino del 10 aprile, 450 volontari, al comando del genovese Agostino Noaro, salpano da Salò, loro quartier generale, con le vaporiere Arciduca Ranieri e Benaco, catturate da Manara a Desenzano. Sbarcati a Cisano, la base operativa viene trasferita a Lazise ed il comando in canonica. Alle 4 pomeridiane Noaro è a Pacengo, si serve del campanile come osservatorio su Peschiera. Si erano uniti anche due studenti di Lazise: Carlo Rossetti e Gottardo Aldegheri. Il primo sarà ferito gravemente nella battaglia di Castelnuovo. Il Noaro viene informato, da spie, dell’esistenza della «polveriera per il tempo di pace austriaca di Cavalcaselle». I volontari avevano assoluto bisogno di polvere da sparo, rara e costosa per quei tempi, anche perché il comando piemontese li aveva lasciati pressoché senza. La decisione di impadronirsi della polveriera è immediata. Il Noaro parte a sera da Pacengo, verso Colà, da dove, per la strada Fonda arriva al Palù della Pesenata. Qui giunti, 100 volontari, col Noaro, piegano a sinistra verso Praia, costeggiando, nascosti dalla vegetazione, la Bissaola; altri 200 guidati da Giuseppe Rossi, detto Lochis, e dal Ranieri, proseguono sfilando lungo il fianco ovest della collina della Cadalora. A segnale convenuto, con mossa a tenaglia, attaccano la polveriera. C’è un solo morto, un caporale austriaco: i prigionieri sono 20, slavi. Tutti sono mandati a Lazise. La polveriera custodiva 582 barili di polvere (circa 200 quintali) e moltissime cartucce a palla. Nella notte, Noaro entra a Castelnuovo. Qui sorprende 100 soldati del reggimento austriaco; tutti ad eccezione di 5 graduati, italiani arruolati nei distretti di Como e Sondrio: fraternizzano e sono loro ridate le armi. Il mattino successivo anche Manara sbarca a Lazise, con altri 600 volontari: ne spedisce 200 a Castelnuovo e si trattiene in paese ad aspettare l’arrivo dei cannoni, per il concordato attacco su Peschiera, che il generale piemontese Michele Bes annunciava per il giorno successivo, ma che inizierà il 13 aprile, troppo tardi. Il vero bombardamento su Peschiera inizierà però a maggio con l’arrivo da Alessandria di cannoni più potenti. «C’è da ricordare, in questa giornata, il grande alterco scoppiato fra don Antonio Marchi, parroco di Cavalcaselle» spiega puntigliosamente Girardi «e l’ufficialità piemontese che aveva deciso di parcheggiare, attorno alla chiesa, le cannoniere, in attesa della costruzione delle postazioni». «Il parroco, temendo giustamente» spiega Girardi «di essere sotto tiro dei pezzi del forte Mandella di Peschiera, interviene per far spostare le operazioni. Ne nasce una accesissima discussione, col risultato che i Piemontesi si spostano sotto il monte Belvedere di Confine di Colà».
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Centocinquantaquattro anni fa, esattamente il 10 aprile 1848, al grido di «Dio lo vuole! Ma Radetzky no!»,