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La vecchia Mariotti, casermone riciclato fra via Padova e via Filanda, è stata abbattuta

Con la Mariotti sparisce un pezzo di storia

La vecchia Mariotti, casermone riciclato fra via Padova e via Filanda, è stata abbattuta. Le muraglie sono diventate montagne di blocchi squadrati di pietra grigia del Brione, ferri, travi di legno vecchie di un secolo, pilastri di cemento armato. Una processione di grossi camion da cava le ha cancellate nel giro di qualche giorno. Dove c’era la casa, c’è una spianata bianca, arata dai cingoli.Nata come caserma alla fine del secolo scorso, quando l’Austria-Ungheria provvide alla fortificazione del confine meridionale dell’impero, continuò ad ospitare militar solidati fino al «rebaltòm», ossia all’8 settembre ’43: quel giorno il colonnello comandante della «Montecorno di Vallarsa» davanti allo sfascio dei vertici dell’esercito, piuttosto che irregimentarli e consegnarli ai tedeschi, scelse di lasciar andare a casa tutti i suoi ragazzi. Nell’edificio, corpo centrale su cinque piani, due laterali su quattro, entrò Roberto Zontini con la sua falegnameria. Forse è meglio parlare di rientro: la costruzione dell’edificio infatti è dovuta all’impresario Giovanni Zontini, attivo anche nella realizzazione dei forti del Brione. Zontini rimase lì fino al ’54 quando si trasferì nei capannoni che intanto aveva fatto costruire su viale Rovereto, di fronte al du Lac: quei capannoni che oggi sono oggi occupati dall’Alimentari spa di Gentilini. Cominciava a metà degli anni Cinquanta l’era Mariotti, quella dello splendore massino dell’industria che arrivò ad un totale di 130 dipendenti. Sotto la guida di Alfredo -nativo di Perugia ma presente con la ditta sulla piazza di Genova- la Mariotti produceva il miglior panforte che si potesse trovare in Italia. Erano listelli di legno incollati e ricoperti di fogli interi di pioppo, o d’altra essenza. Altro tipo di produzione, quello del compensato di pioppo e delle centine di legno delle navi. In quegli ultimi anni Cinquanta l’impresa di Giacomo Lotti stava costruendo nella campagna di fronte alla Mariotti, la cartiera del veronese commendator Legrenzi, quella che sarebbe diventata la Cartiere del Garda. Allora essere operaio della Mariotti era motivo di vanto, segno di professionalità oltrechè di stipendio pingue e garantito, in anni difficili per tutti. La morte del primo titolare, la probabile minore capacità imprenditoriale del fratello Orlando erede dello stabilimento, aggiunte ai mutamenti dei mercati invasi sempre più massicciamente dalla plastica, accelerarono la crisi. Dal ’76 al ’79, per evitare la chiusura, gli operai nel frattempo calati ad una ottantina di unità, sperimentarono anche l’autogestione: Augusto Martini era il loro presidente; il geometra Stirpe per la provincia e Bruno Santi, che aveva da poco smesso di fare il sindaco, curavano la parte amministrativa. Tramontata l’epoca del panforte, tanto per tirare avanti s’accontentavano di mettere insieme i pallets: poco valore aggiunto, poca qualificazione. Servì a trascinare, tre anni più tardi, uno spettro di stabilimento fino all’Atlas Holzwerke dell’altoatesino Pichler che impostò una produzione industriale di porte. Crisi dell’edilizia ed alcuni errori nella produzione decretarono la fine: operai in cassa integrazione, capannoni svuotati e deserti. Il resto è storia di ieri: la Cartiera affamata di spazio compra, facendo un grosso favore alla Provincia, con la prospettiva di ampliarsi ad est almeno con un magazzino. Il comune e la provincia – altri anni, altri protagonisti – stoppano poi le mire espansionistiche. Tar e piano regolatore in itinere diranno ora quale potrà essere il futuro di quell’area.

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