“L’Italia soffre di una crisi cronica di quattro specie: una crisi fiscale, perché il disavanzo è diventato un fatto, il debito è aumentato fuori ogni proporzione in confronto alle risorse del paese e le tasse oltrepassano ogni possibile limite. È in atto una crisi bancaria”.
Un commento di qualche economista moderno di fronte alla situazione attuale del nostro Paese? No, una descrizione del 1880 del maggior economista dell’epoca, Wilfredo Pareto.
Certo che dopo 133 anni la situazione nazionale non è cambiata un granché; c’è ancora la crisi fiscale, il disavanzo è cresciuto esponenzialmente; il debito è sempre enorme e le tasse si aggirano verso il 54%. Ma perché 130 anni di unità nazionale sono passati invano?
La ragione di fondo è che l’unità d’Italia è stata fatta male. Il regno di Sardegna per finanziare le guerre di indipendenza si era continuamente indebitato, talché doveva continuare a combattere nuove guerre vittoriose per impadronirsi della cassa dei Paesi vinti, ma questo non era bastato a ridurre il debito dello stato sabaudo verso vari tipi di finanziatori, A peggiorare le cose l’ ulteriore sforzo economico richiesto dalla guerra di Libia, la quale peraltro non fruttò niente in cambio se non probabilmente ulteriori esborsi per sostegno del nuovo territorio. Un altro enorme salasso venne dalla Prima guerra mondiale la quale chiese all’erario un gigantesco sforzo che avrebbe potuto essere evitato stante l’inutilità di quel conflitto.
La successiva guerra d’Etiopia non servì ad altro che a peggiorare la situazione delle già esauste finanze italiche. La seconda guerra mondiale poi ingoiò totalmente le scarse finanze italiane. Una saggia politica industriale nel dopoguerra, aiutata da provvedimenti internazionali, permise lentamente di avere un avanzo primario ed uno sviluppo concesso dalla bassa tassazione e da norme permissive che furono alla base del cosiddetto “miracolo economico”. La virata, a partire dagli anni ‘70, verso un’economia fortemente statalizzata e verso principi economici di forte coinvolgimento dello Stato nell’economia di modello keynesiano, mentre nel mondo si stavano facendo strada delle politiche monetariste liberiste, provocarono una rapida disgregazione del tessuto produttivo che si era appena formato negli ultimi decenni precedenti e scarinarono la rete produttiva che si era faticosamente creata.
I risultati non hanno insegnato nulla e ancora oggi assistiamo all’affannosa ricerca di rappezzi che sono peggiori dello strappo. Abbiamo visto in questi giorni rappezzare Alitalia prima mediante un tentativo con denari della Cassa Depositi e Prestiti ovverossia nostri, poi con fondi delle Poste Italiane, ovverossia ancora nostri, in una rinazionalizzazione surrettizia. In un Paese che si dice liberista il fatto di non aver più una compagnia di bandiera è assolutamente irrilevante; sempre che i servizi di aerotrasporto siano esistenti in grado sufficiente negli aeroporti nazionali. Se guardiamo all’estero vediamo che il Belgio, quando ha visto che non ce la faceva a mantenere la Sabena, l’ha ceduta senza batter ciglio. Oggi il Belgio non ha compagnie di bandiera ma non ne soffre per niente; Bruxelles è sempre un importante hub. Magari altrettanto potrebbe essere fatto per la fatiscente Alitalia, col risultato di avere altri vettori con magari migliori servizi e rotte e con l’incasso di qualche po’ di denari che non fanno male. Riteniamo che l’orgoglio di bandiera in questi casi sia un sentimento fasullo.
Per il resto la ricerca del miglioramento viene fatta con due atteggiamenti che hanno ampiamente dimostrato la loro inefficienza: l’intervento dello Stato a sostegno di società in decomposizione e l’aumento della tassazione per avere i denari occorrenti. Ci spiace citare ancora (e forse lo dovremo fare molte volte) la curva di Laffer. Forse per i “nostri reggitori socialisteggianti” non dice molto, ma anche per loro il suo andamento è inesorabile. Dimostrazione: l’ aliquota dell’iva è stata aumentata e il relativo gettito è immediatamente tonfato. Prosit!
(Immagine d’archivio)
Calibano