venerdì, Novembre 8, 2024
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Di quando in quando si affacciano alla soglia della memoria i ricordi del passato.

I vecchi, attuali, detti

Di quando in quando si affacciano alla soglia della memoria i ricordi del passato. Questa è la volta dei detti popolari che accompagnavano la nostra crescita, in tempi deserti di oroscopi e di letture astrologiche di cui sovrabbondano le edicole dei nostri giorni. Allora ci si affidava all’autorevolezza dei nonni che tramandavano alle generazioni in salita il patrimonio di saggezza popolare distillato nel lungo incalzare degli anni. Una scuola aperta all’immediata conoscenza delle cose che mirava dritto all’intelligenza dei fatti; in campo pratico, ad una lettura della realtà non priva di risvolti fantastici che mettevano alla prova la stessa immaginazione creativa nel momento più immediato dell’approccio agli eventi, agli accadimenti della quotidianità. Si cominciava in autunno, per finire alle soglie della primavera: era una sequenza ininterrotta di sentenze proverbiali derivate dall’attenta e rinnovata riflessione sul ciclo liturgico-stagionale e dall’inevitabile osservazione dettata dall’esperienza della vita. Un’esperienza maturata, giorno dopo giorno, dentro la peculiare sostanza del vivere alle prese con gli essenziali contenuti culturali dell’evoluzione temporale. In virtù della tradizione vissuta in strettissimo rapporto con la natura, raramente i nonni sbagliavano nelle loro previsioni che parevano tolte di peso da un prontuario magico. A ben vedere c’era di che meravigliarsi, constatando che il detto del nonno aveva centrato il bersaglio quando – alla vigilia dei giorni dei Santi e dei Defunti – sentenziavano: «Ai sancc con l’ombrèla ai morcc co la capèla». (E viceversa, per non veder smentita la profezia: «Ai sancc co la capèla ai morcc co l’ombrèla»). Il tutto per significare, senza tema di smentita l’alternarsi della pioggia e del sereno previsti per il 1° e per il 2 di novembre, appunto, festività dei Santi e dei Morti. A seguire, la più facile delle previsioni: «A san Martì – ve bu ’l vì», per ricordare che il frutto della recente vendemmia poteva già rallegrare le mense quotidiane. Per il 2 dicembre era pronta la relativa sentenza: «Se ’l fiòca a santa Bibiana la vè zô per ’na setimana». (La santa martire romana, morta decapitata per la sua fede, veniva invocata anche contro il mal di testa: «Quan che go ’l cô chè döl l’è la santa chè ghè öl». Il 13 dicembre, giorno di santa Lucia? Il detto popolare faceva riferimento sia all’evolversi della stagione che alla lunga notte dei bambini in attesa dei doni: «L’è la nòt dè santa Lüsia la piö longa chè ghè sia». E dopo la notte più lunga, il giorno prende a guadagnare spazio per sé e per la luce. La sequenza che seguiva, è il caso di dirlo, si faceva illuminante: «A Nedàl, en pas dè gal» per dire che già si comincia a far conto dei minuti… «A Pasquèta, mesurèta». All’Epifania (Pasquèta nel gergo dialettale) i minuti raggiungono la mezzora. E al 17, festa di Sant’Antonio Abate, patrono degli animali di campagna, si è già al guadagno d’un’ora: «A sant’Antòna – n’ura bòna». Dopo di che seguivano inequivocabili le spìe della nuova stagione: «I sàncc Fabià è Bascià i vè co la viöla ’n mà». È il 20 di gennaio. Il giorno dopo i santi Fabiano e Sebastiano, è sant’Agnese che fa dire: «A sant’Agnés la löserta ’n dè la sés», mostrando al timido sole di stagione la prima temeraria lucertola a caccia di calduccio. Il 2 febbraio era immancabile il ritornello che cantilenava: «La Madòna candelöra dè l’invéren som za föra… Ma s’èl piöf è tìra vènt ne l’enveren turnom dènt». Il 3 febbraio si invocava san Biagio a protezione della gola. Il tradizionale rito delle candele incrociate tese dal celebrante a benedire la gola, suggeriva il detto popolare: «Prega san Bias per la tò gola è tas». Pregare fa bene, pare voglia dire, ma fa meglio de risparmi la gola… tacendo, per osservare un salutare silenzio. A metà febbraio, giorno del santo protettore della città, si usava dire che i rigori della cattiva stagione erano agli sgoccioli talché usava dire: che «san Faüstì l’è l’öltem mercànt dè néf». Marzo veniva annunciato per quel che in realtà si era meritato nel corso di una provata e collaudata esperienza diretta: offriva giorni ora soleggiati ora piovosi, per cui: «L’è mars: en pò sul, en pò sguass». Inevitabile, il 21 con l’inizio stagionale della primavera, citare: «A san Benedèt – la rondena l’è sota ’l tèt». Gli avvertimenti relativi al modo di affrontare l’inclemenza del tempo, a tutela della salute, riguardavano l’abbigliamento ed erano dettati da una antica saggezza popolare mai così perentoria. Non a caso, per l’occasione, il dialetto lasciava spazio alla lingua, per significare che il riferimento andava alla prudente gradualità ben oltre il limitato orticello di casa; e dunque: «Aprile, non ti svestire. Maggio, va adagio. Giugno, poi, fa quel che vuoi». E così via. Con la memoria che fa tesoro dei detti popolari come di un patrimonio che non teme l’usura del tempo.

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