Se il casello dei Leali era ad est della stazione di Desenzano del Garda, a ovest, dopo il viadotto, vi era quello degli Zambolo. Ogni casello aveva un suo numero, ma tutti, da sempre, li denominavano dalla famiglia che vi abitava. Negli anni ’50 dello scorso secolo i caselli avevano ancora una funzione e i capofamiglia un incarico nelle Ferrovie dello Stato, generalmente nel comparto della manutenzione dei binari e delle scarpate. Si sentivano ferrovieri ed erano orgogliosi di esserlo; tra i dipendenti di un tratto di linea si conoscevano, più o meno direttamente, tutti, e soprattutto solidarizzavano con gli operai dell’Armamento.
Il casello degli Zambolo (contrassegnato dal n° 108+828) era stato costruito su più piani proprio sulla scarpata della ferrovia, con accesso dalla vecchia strada di Lonato. Anche se un po’ trasformato è tuttora abitato. Dopo il bombardamento del bel viadotto asburgico ad archi ogivali del 15 luglio del 1944, con l’interruzione della Milano-Venezia, era stato utilizzato come stazione, con la posa in opera di alcuni tronchetti di binario nel piccolo pianoro adiacente, dove alcuni carri merci sostavano per operazioni di trasbordo notturno su autocarri. Da lì si staccava un unico binario su percorso alternativo, già predisposto durante la guerra 1915-1918 in previsione dell’eventuale bombardamento del viadotto, mai fortunatamente utilizzato, che scendeva verso le Grezze perdendo gradualmente quota per poi risalire attraverso la campagna a sud del viadotto con rilevati e trincee. Sfiorando la cascina Mirabello saliva a congiungersi con la linea Milano-Venezia presso la cascina San Zeno, poco prima del cimitero di Rivoltella.
Negli anni del dopoguerra, ricostruito in cemento il nuovo viadotto, e ripristinata la linea nel 1947, venne smantellato il raccordo, di cui qualche traccia è ancora visibile, anche se le trincee sono state colmate e le scarpate spianate. Il casello era tenuto molto bene, sia l’edificio giallo intenso o arancione, tipico di quelle costruzioni, sia l’orto-giardino impiantato nella spianata dove c’erano stati i tronchi di binario. Aveva un cancelletto che dava sopra la scarpata, sulla strada, allora bianca, che porta da Desenzano a Lonato o viceversa, detta ‘la vecchia strada di Lonato’. A metà di quel percorso tra i due paesi, vi era un’osteria-trattoria chiamata ‘La Passeggiata’ con alcuni ippocastani che davano ombra a un gioco di bocce e a due tavolini. Qui si ritrovavano nel pomeriggio ferrovieri in pensione a giocare a bocce o a carte, sorseggiando del rosso. Alla domenica salivano qui anche dei Desenzanesi appunto per fare una passeggiata. Era in quegli anni un luogo di grande quiete e la corsa dei treni vicinissimi dava allegria.
Poco prima del fabbricato dell’osteria vi era una rozza casupola fatta di prismi con due piccole finestre sempre chiuse, che dicevano abitata da uno stravagante, da una persona, un tempo ricca e poi decaduta tanto da doversi ritirarsi lì a vivere poveramente. Qualcosa di vero nelle chiacchere c’era, perché qualche mese dopo la sua morte, dei vandali avevano rotto le finestre e dentro si vedeva un piano nero a coda e per terra ovunque degli spartiti rotti.
Ebbene il primo edificio dopo ‘La Passeggiata’, scendendo da Lonato, sulla destra, era proprio il Casello degli Zambolo. Come tutti i caselli disponeva di terreno attorno, come si è detto, molto curato e molto bello. Accanto alle aiuole dei radicchi, di porri, di aglio, di salvia, di basilico aveva dalie dai colori vivaci: arancioni, bianche, rosse; inoltre vi erano i settembrini, i crisantemi che in ottobre splendevano con le corolle di diverso colore. Non si vedevano mai persone fuori casa ad armeggiare, ma chiunque fosse stato l’ortolano-giardiniere, uomo o donna, teneva quel piccolo pezzo di terreno che neanche un pittore paesaggista o l’Arcimboldo avrebbe potuto disegnare in modo tanto ammirevole.
In quegli anni ’50 ancora si raccontava di come nel 1947 una loro bimbetta di due anni, Margherita, chiamata dal fratello dall’altra parte della ferrovia, attraversando correndo la massicciata, fosse stata ‘ urtata’ dalla staffa cacciapietre della locomotiva a vapore di un treno in corsa che scendeva verso Desenzano. Il macchinista, fermatosi alla vicina stazione, era stravolto dallo spavento, dall’ansia, dal rimorso. Si calmò un po’ solo quando un operaio in bicicletta arrivò a perdifiato in stazione, avvisando che la bambina stava bene e, a parte qualche escoriazione, non aveva subito niente di grave. Quel piccolo giardino sembrava un rendimento di grazie a cielo aperto per lo scampato pericolo. Tutt’intorno le colline erano verdi e non si vedevano molte costruzioni. Le poche, come la villa ‘La Ritrosa’, erano nascoste dai tanti alberi che circondavano il laghetto Bagoda. Le macchine di passaggio erano rare e poche le biciclette, perché fare le due salite in successione del Monte Croce era faticoso; al massimo provenivano da Lonato, perché in discesa. Per questi ciclisti il casello diceva che erano ormai vicino al lago. Per chi era sul treno, passato il casello Zambolo, s’apriva il grande spettacolo della piana del Basso Garda, dello specchio mutevole del Benaco e del domestico crinale del Monte Baldo.
Giancarlo Ganzerla