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Il Catullo espropriato

Pubblicato sul numero di gennaio 2009 di Gienne

“Nil sine magno/vita labore dedit mortalibus”
(Nulla si conquista in vita senza grande fatica da parte dei mortali).

La considerazione di Orazio si addice ad una tormentata vicenda del cui epilogo conservo vaghe ed infantili ricordanze.
Il grande edificio costruito nel primo secolo dopo Cristo sull’area in cui probabilmente sorgeva un immobile più modesto ed antico era ridotto a triste rovina quando lo visitò Arici, nel terzo decennio dell’Ottocento.
Con questi endecasillabi, infatti, lo descrisse il poeta:
“Tutto quel che di terra alto sorgea,
da due mill’anni in qua ruppe e travolse
l’operoso del tempo volger lento,
l’ira delle procelle, e ognor più spesso
dell’uom la cieca irriverenza e stolta … “.

Nulla verosimilmente mutò fino al 1911, allorchè una legge impose il divieto di fabbricazione in tutta la zona ab antiquo denominata Grotte di Catullo, al palese fine di facilitarne l’esproprio. L’8 maggio 1920 tra il soprintendente ai Monumenti della Lombardia, Augusto Brusconi, e il possidente Angelo Gennari fu pattuita la cessione di un terreno di mq. 8780 al prezzo di L. 10.097. Non risulta che la convenzione, vincolante per il venditore sirmionese, abbia ottenuto la necessaria approvazione dal Ministero della Pubblica Istruzione.

Nell’anno 1942-XX si registrò uno scambio di lettere tra il commissario prefettizio, Cesare Cenzi, ed alcuni proprietari. Se ne evince che il Comune intendeva acquisire l’area della zona archeologica in forza di un accordo stipulato venti anni prima con la Regia Soprintendenza alle Antichità. In una nota datata 4 marzo 1943-XXI il ministro Biggini, fresco successore di Bottai all’Educazione nazionale, consentì che le somme necessarie all’esproprio “venissero fornite dalla locale Azienda di cura”. Il 18 luglio 1944 (manca il XXII, n.d.a.) lo stesso Biggini, confermato nella carica dal governo di Salò, decretò la pubblica utilità dei fondi ”comprensivi dei grandiosi ruderi romani denominati Grotte di Catullo”. All’atto era annesso un elenco: tra gli espropriandi figuravano la Società Anonima Terme e Grandi Alberghi, nonché la Parrocchia. Il 7 agosto di quell’anno il prefetto chiese alle autorità sirmionesi di esprimere un parere sulla domanda della citata società, “intesa ad ottenere, per un periodo di tempo da stabilirsi, il godimento della proprietà che convenientemente migliorata potrà, successivamente, essere assegnata alla amministrazione locale”.

Pochi giorni dopo, il podestà Cenzi assentì alla “lodevole iniziativa”. Ma il 3 gennaio 1945-XXIII il soprintendente alle Antichità della Lombardia, Nevio Degrassi, gli confermò la superiore decisione di espropriare i terreni, onde provvedere alla loro “sistemazione archeologica e paesistica”. L’alto funzionario così concludeva la lettera: “Confido quindi che anche Voi vorrete usare la Vostra autorevole parola verso i proprietari per un’accettazione immediata del prezzo offerto (L. 6,25 al mq., n.d.a) e ciò come ho già detto nell’interesse dei singoli proprietari stessi e del Comune di Sirmione perché questa grande opera, che dovrà costituire il primo effettivo passo per la valorizzazione turistica della penisola catulliana, abbia, nel più breve tempo possibile, anche in un periodo così tormentato per l’Italia, la sua immediata realizzazione”.

Il 26 ottobre 1945 la Prefettura decretò una parziale occupazione dell’area per la durata di due anni.

Il 20 febbraio1946 venne presentata al prefetto e ai consiglieri una “opposizione alla domanda di esproprio della zona delle così dette Grotte di Catullo”. Nella memoria, aperta dalla frase: “Tutta Sirmione è commossa”, si contestava “lo splendido dono” di Degrassi alla nazione e si negava che, nella fattispecie, un opinabile interesse generale potesse indurre l’effettiva violazione di diritti individuali. Vi si leggeva pure: “il cosiddetto Ministro Biggini non ha voluto oziare come Achille sotto la tenda, e dallo stesso Quartier Generale, in data 18 luglio 1944, ha decretato che i terreni comprensivi dei grandiosi ruderi romani denominati Grotte di Catullo erano a tutti gli effetti di legge dichiarati di pubblica utilità”.

I ricorrenti, tre dei quali agivano anche in nome di altrettante signore, “virilmente” contestavano tale qualificazione ad “un complesso di loculi informi, monotoni, squallidi, tetro invito alle upupe e ai pipistrelli”. Conseguentemente, proponevano di “delimitare, con criteri giustamente restrittivi, la zona archeologica vera e propria ed espropriarla”. Richiedevano, peraltro, di procedere “alla abolizione di ogni vincolo nei confronti dei circonvicini terreni”. Primo dei firmatari fu il parroco, don Giuseppe Martini.

L’opposizione non fu accolta e il 16 settembre 1947 il prefetto ordinò al sindaco Camillo Migliorati “il deposito nell’Ufficio comunale del piano parcellare di esproprio, nonché dell’elenco delle indennità offerte a ciascun proprietario”. La vicenda si concluse, ma non tutti gli animi si rasserenarono. il primo agosto 1950 don Lino Zorzi, giunto da pochi mesi a Sirmione, indirizzò una vibrata protesta al ministro della Pubblica Istruzione. Lamentò l’esiguità dell’indennizzo per “il tratto di oliveto di complessivi mq. 9130, indicato da tempo immemorabile col nome di ‘argini dell’arciprete’ e rappresentante, con i suoi 394 ulivi, la parte maggiore e la più redditizia dell’esiguo beneficio della Parrocchia di S. Maria Maggiore”. Osservò, inoltre, che gli ulivi “coltivati come si deve” producevano kg. 540 di olio ad ogni raccolta e ciò equivaleva a L 270.000, mentre alla Parrocchia erano andate in tutto L 220.000.

Per rimediare ad un ‘ingiustizia tanto palese, il religioso propose “l’accettazione di una enfiteusi impegnativa, sia pure contro un canone annuo dimostrativo”, che consentisse la coltivazione degli ulivi con il relativo godimento dei frutti. Ed aggiunse: “La somma rappresentante l’indennizzo d’esproprio del 1947 potrebbe essere considerata quale modesto e parziale (molto parziale) risarcimento dei danni subiti dal 1945 ad oggi”. L’archivio comunale non rivela l’esito di questa doglianza. Ci consente, invece, di apprendere che il 9 gennaio 1951 il sindaco Cenzi, confortato “dall’atteggiamento di parlamentari bresciani di ogni partito”, si rivolse al ministro della Pubblica Istruzione, onorevole Segni, e al presidente della Camera dei Deputati, onorevole Gronchi, per chiedere il ritiro del disegno di legge concernente il pagamento dell’ingresso alle Grotte di Catullo.

In quell’anno la Soprintendenza e il Comune si confrontarono anche con l’insorgente problema del traffico automobilistico diretto alla zona archeologica. Il 27 agosto il primo cittadino della penisola gardesana scrisse al soprintendente Degrassi che, per salvaguardare la quiete della stazione di cura, era necessaria “la costruzione di un lungo-lago ad est dell’abitato, che … passando dietro l’abside della Chiesa, avesse a raggiungere il viale Gennari … “.

Il 6 gennaio 1952 il Consiglio comunale approvò un ordine del giorno, che venne sottoscritto da 419 dei 471 capi famiglia, mentre 22 furono gli astenuti. Nell’atto si affermava: “Non esistono dati di fatto o altra documentazione per asserire che il poeta romano Catullo abbia avuto una villa o fissa dimora su questa terra”; si rifiutava la classificazione di monumento agli “avanzi di un pur grandioso stabilimento romano di bagni”; si faceva presente che erano i ruderi ad essere “valorizzati in conseguenza del patrimonio termale-alberghiero della stazione turistica”; si dichiarava, infine: “L’approvazione … di una tassa sull’entrata … porta un gravissimo danno finanziario alla categoria alberghiera locale che da anni e anni, con una tenacia senza pari, lotta per l’avvenire di questo incantevole paese”. Ancora del poeta di Venosa è il saggio ammonimento: “Quid sit futurum cras, fuge quaerere” (Rifuggi dal chiederti quale sia il domani). Ma non si dà mai soverchio ascolto ai poeti.

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