Anni orsono una dotta e cortese concittadina, la professoressa Angela Martini, mi venne a trovare e mi lasciò in visione il libro poetico d’un grande latinista, cui non sembra sortita fama pari al valore. Si tratta di Alessandro Zappata, nato a Comacchio il 16 dicembre 1860 e scomparso il 1° febbraio 1929. Insegnante di lettere antiche, ottenne ben diciannove premi a quel concorso di Amsterdam ove fu dodici volte laureato il contemporaneo Giovanni Pascoli.
Ad u carme di Zapata, intitolato “Mater Iesu et mater Iudae”, toccò la medaglia d’oro. Tuttavia, come la signora aveva intuito, una composizione tra le tante subito attrasse la mia attenzione, rivelandomi una volta di più quanto sia sconfinata l’ignoranza anche di quanti quotidianamente si chinano su “le sudate carte”. Il carme in argomento è “Sirmio”.
Vi si narra, in nitidi esametri, la storia di un immenso drago che viveva sulle rive del Benaco, terrorizzando le genti e cibandosi di carne umana.
Ma una notte, sorpresa una ninfa di incomparabile bellezza, fu trafitto dallo strale di Cupido e nel suo petto scaglioso “fiorì la divina poesia dell’amore”. E giacché il suo vero aspetto non avrebbe potuto in alcun modo ispirare teneri sentimenti nell’animo della donna leggiadra, si presentò a lei sotto la mentita spoglia di un seducente cavaliere.
Accadde così che l’incauta fanciulla nove mesi più tardi partorì un figlio del tutto simile al mostruoso padre. Inorridita, la misera rimase immota quale marmoreo sasso: “Angui comae veluti visa cervice Medusae”, come se avesse visto il capo di Medusa dalle serpentine chiome. Trascinata dal vento nei flutti impetuosi, la ninfa si mutò in penisola (le metamorfosi sono un tema caro all’antica poesia) e giacque nell’azzurro specchio delle acque.
Sirmio, disperando di poterla salvare, si gettò nel lago, vomitando dalle fauci fuoco e sulfurei zampilli.
Questa, scrive il poeta, è la millenaria leggenda. Ai nostri giorni “Sirmio o sola iacet, vitreis ed candet in undis”: Sirmione solitaria giace e risplende tra l’onde cristalline. Così la fantasia del vate spiega l’incanto di un paese e l’origine delle sue benefiche acque termali. Nel poemetto sono rievocate anche e vicende amorose dell’infelice Catullo, descritto mentre mostra agli amici il faselo bitinico ancorato in un porto sicuro e consacrato ai gemelli Castore e Polluce.
Va rilevato infine che, secondo Zappata, il tradizionale senso di ospitalità degli abitanti origina direttamente dal volere di Giove, abituale visitatore delle amene e verdi plaghe della penisola gardesana, dove gli era stato eretto un altare. Del cantore comaclense ha scritto la professoressa Martini: “I suoi autori furono Virgilio, Tibullo, Lucrezio e Quintilliano: tuttavia si sente in lui anche il conoscitore della letteratura religiosa, come affermano certi accenti tolti da San Girolamo o alcuni argomenti derivati dalla Bibbia Volgata. Cultore del neo umanesimo moderno, formò la propria esperienza artistica sull’elegante umanesimo che nel Poliziano e nel Berni latino ebbe i maggiori esponenti”.
Mi è grato considerare Zappata – che annotò di amare l’onesta povertà, la libera pace e l’alma quiete – tra gli amici più illustri della venusta terra catulliana.