Era un vecchietto curvo e sottile. Pochi capelli candidi gli coronavano la sommità del capo, intersecata da una rete di vene azzurrine.
Sedeva d’abitudine presso l’uscio di casa e talvolta, nessuna più grave fatica essendogli ormai consentita, riparava le reti del figlio, muovendo con antica perizia le mani tra le maglie lacerate.
Amava raccontare, ai pochi che avevano il tempo e la voglia di ascoltarlo, episodi della sua lunga vita, trascorsa quasi interamente sul lago. Ma della prima guerra mondiale, durante la quale era stato arruolato nella Regia Marina, preferiva tacere e, se veniva interrogato in merito a quella dura esperienza, dopo poche parole deviava il discorso su fatti della vita civile.
Fin dall’infanzia ho amato gli anziani e i loro racconti che, per lontananza temporale e conseguente incertezza storica, hanno il sentore mitico delle favole antiche. Ricordo che in un remoto pomeriggio estivo gli chiesi di evocarmi un episodio della sua giovinezza. Si esprimeva nel dialetto caro alla Musa di Franca Grisoni, la bresciana radice del quale è sovente addolcita dalla confinante terra veneta, cui la penisola gardesana appartenne per secoli ed alla quale fu sottratta dalle armi francesi. Correva il 1797, l’anno del “sacrificio della Patria”, secondo il fuggitivo e disperato Jacopo Ortis. “Sul finire dell’ottocento – a un dipresso mi raccontò, ma il suo eloquio aveva un irripetibile lindore – l’unica possibilità di accedere a Sirmione, per chi non intendesse percorrere impervi sentieri campestri, era data dal battello proveniente da Desenzano. Benché contasse poche centinaia di abitanti, il paese che ci sta di fronte veniva descritto come una città ai giovani, allorché vi si dovevano recare, con pochi oggetti personali e molti timori, a prendere il treno all’epoca del servizio militare. Quando il battello gettava l’ancora nelle acque antistanti quella che adesso è la piazza del municipio, noi ragazzi accorrevamo. Dalle barche che li trasbordavano, scendevano rari passeggeri, vestiti in fogge strane e pesantemente calzati rispetto a noi che portavamo quasi sempre gli zoccoli. Mi toccò una volta di accompagnare alle Grotte di Catullo una coppia di turisti italiani. La massiccia figura dell’uomo maturo faceva risaltare la giovinezza della donna. Oltrepassate le poche case dell’abitato, attraverso i prati salimmo all’estrema punta settentrionale. A quei tempi, i resti dell’edificio romano erano proprio delle caverne quasi del tutto interrate e ricoperte da rovi che ne rendevano difficoltoso l’accesso. Come arrivammo, quel signore guardò gli ulivi, il lago, i monti e quindi, cinta con un braccio la vita della sua compagna, pronunziò parole che non compresi. Rimanemmo a lungo tra le rovine, malgrado la fanciulla esitasse ad inoltrarsi nei cunicoli bui. Appena ritornati al porto, ricevetti una moneta che consegnai orgogliosamente a mia madre, la cui espressione di meraviglia vive tuttora in me. Soltanto alcuni anni più tardi seppi di aver guidato alle Grotte un famoso poeta, che aveva recitato i versi dedicati da Catullo a Sirmione”.
Il pescatore riposa nell’ultima dimora, guardata da un filare di agili cipressi. Tuttavia, passando dinanzi a quella che fu la sua casa, m’è parso di vederlo ancora seduto a contemplare, tra l’azzurro del lago e del cielo, il volo dei liberi gabbiani. Poi la nebbia del tempo è calata a velare le memorie e le cose.