Mentre a Mantova si discuteva se fosse possibile deviare la ferrovia da S. Antonio alla stazione della città, per favorire l’insediamento della futura zona industriale di S. Giorgio, sui giornali per qualche tempo si ricominciò a parlare del prolungamento della Mantova-Peschiera verso Lazise, e non solo, ma fino a Domegliara. Il “Giornale di Brescia” l’11 luglio 1947 titolava: “La progettata Genova-Brennero – L’opposizione dei veronesi al tratto Peschiera-Domegliara”. Brescia era favorevole alla realizzazione di questo raccordo, così come Cremona e altre provincie lombarde e piemontesi. La presa di posizione della Camera di Commercio di Verona fu forte fin da subito. Scriveva il cronista: “Allarmata dall’azione che il Comitato promotore della ferrovia Genova-Piacenza-Cremona-Brescia-Brennero sta svolgendo, nella quale intravvede il pericolo di essere estromessa dal percorso, specie se verrà attuato il raccordo Peschiera-Domegliara, ha inviato al Ministero dei Trasporti una formale opposizione contro qualsiasi deviazione del traffico ferroviario da Verona”. Naturalmente a questa presa di posizione la Camera di Commercio di Cremona presentò subito formale contro-opposizione, seguita da Brescia.
L’argomentazione forte era che la costruzione del raccordo di soli 13 km tra Peschiera e Domegliara, avrebbe accorciato di 28 km il percorso dei treni merci e viaggiatori, provenienti dalle provincie lombarde oltre Peschiera, verso le provincie della Venezia Tridentina e il Brennero. Qualche giorno dopo, il 3 agosto 1947 il “Giornale di Brescia”, in un articolo in prima pagina dal titolo “Vantaggi del raccordo fra Peschiera e Domegliara” tentò di rilanciare con interessanti considerazioni, minimizzando gli svantaggi che Verona avrebbe subito.
Come è noto, questo raccordo, caldeggiato da decenni prima da Mantova e poi dalle provincie lombarde, non venne mai compiuto. Così come non furono mai realizzate le tanto auspicate ferrovie o tranvie elettriche sulle sponde del lago di Garda per raggiungere Trento sia da Brescia sia da Peschiera. Certo è che se almeno il prolungamento Peschiera-Domegliara fosse stato costruito, la Ferrovia Mantova-Peschiera avrebbe guadagnato ben altra importanza, e forse un futuro. Inutili rimpianti.
La S.A.E.R., la sub-concessionaria che malvolentieri aveva riaperto la linea, non fece assolutamente nulla per migliorare la situazione dei rotabili disponibili e delle infrastrutture, e nemmeno programmò seriamente una parvenza di ricostruzione. Come era facilmente ipotizzabile il 31 agosto 1947 la S.A.E.R., “sottraendosi arbitrariamente agli impegni cui la legava la sub-concessione, abbandonò l’esercizio. I treni, per quel giorno restarono fermi”. Amare considerazioni nelle parole di Alessandro Muratori. Il Consorzio, però, che aveva intuito ciò che la S.A.E.R. aveva in animo di fare, si mosse politicamente.
Sembravano già tutti pronti ad intervenire, in primis il Prefetto di Mantova, quando nello stesso giorno di chiusura della ferrovia nominò Commissario al Consorzio l’avvocato Carlo Bertazzoni, Presidente dell’Amministrazione Provinciale di Mantova, con l’incarico di provvedere alla continuazione dell’esercizio. Infatti all’alba del giorno dopo, I° settembre, la circolazione dei treni riprese regolarmente. Deve essere stato proprio una brava persona Carlo Bertazzoni, perché si dedicò con tutte le sue notevoli capacità a far sì che la situazione della ferrovia Mantova-Peschiera migliorasse nei limiti del possibile. Riordinò ciò che poteva essere recuperato, riattivando i binari delle stazioni asportati dalla S.A.E.R. per ripristinare quelli di linea. Ricostituì un minimo di scorte, perché solo allora si scoprì che la società sub-concessionaria aveva provveduto a vendere tutti i materiali di scorta, compresa una piccola gru di officina. Operò, praticamente senza risorse, ma con risultati soddisfacenti, fino al febbraio 1948. Il 14 febbraio, dopo aver appositamente convocata l’Assemblea generale, il Consorzio pose fine alla gestione commissariale e iniziò la gestione ordinaria. A quel punto era verosimile pensare che la Mantova-Peschiera non avrebbe corso il rischio di chiusura.
Il compito che si era assunto il Consorzio era pesante. Le condizioni della linea, delle infrastrutture, del materiale rotabile rimasto erano a tal punto precarie che la stessa sicurezza della circolazione non poteva essere garantita. Ma l’impegno era ben supportato dalla volontà politica e amministrativa dei vertici mantovani, oltre che dalle aspettative delle popolazioni dell’intera vallata del Mincio. Impegnandosi a mantenere il servizio viaggiatori, il Consorzio fece l’unica e possibile mossa che c’era da fare: chiedere alle Ferrovie dello Stato di poter aver in noleggio delle “littorine”.
Le F.S., anch’esse impegnate in una ricostruzione post-bellica della rete e nell’approvvigionamento particolarmente difficile di nuovi rotabili, concessero alcune automotrici funzionanti a metano, le ALm 56 Fiat (la sigla sta per Automotrice Leggera metano, 56 era il numero dei posti a sedere (N.d.R.).
La scelta, anche per le F.S., di concedere a noleggio oneroso (lire 113 per km, portate poi a lire 134 per km) questo tipo di’littorinè fu dettata dal fatto che dagli anni 40 un centinaio di automotrici alimentate a metano circolavano nella bassa pianura Padana, zona in cui si andavano scoprendo i giacimenti di questo gas combustibile. Durante il conflitto mondiale queste automotrici garantirono il servizio viaggiatori lungo le linee Milano-Cremona-Mantova; Verona-Mantova-Modena; Verona-Isola della Scala-Nogara-Cerea-Legnago-Monselice-Padova; Ostiglia-Legnago; Vicenza-Rovigo-Chioggia. Quindi le automotrici erano già di stanza al deposito di Mantova. A partire dal 1948 tutte queste macchine saranno via via trasformate dalle F.S. con alimentazione diesel a nafta, e quindi contraddistinte dalla sigla ALn 56, dovèn’ sta appunto per nafta, com’era allora chiamato il gasolio.
Il noleggio era molto costoso. Tra l’altro, scarseggiando il carbone per le locomotive a vapore utilizzate su queste linee non elettrificate, per l’effettuazione di treni merci e di qualche treno passeggeri con vetture, le Ferrovie dello Stato reclamarono una restituzione delle automotrici appena possibile.
Per garantire la sicurezza della linea, lasciata colpevolmente senza manutenzione dalla S.A.E.R., ci si rese conto che occorreva provvedere urgentemente alla sostituzione di oltre quindicimila traversine in legno che non erano più in grado di garantire la tenuta e lo scartamento dei binari.
Per sostenere tutte le spese di riparazione e di ripristino fu necessario ricorrere ad un mutuo, chiesto dal Consorzio ed ottenuto presso la Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno. Ma la disponibilità finanziaria, alla fine, ammontava a soli 60 milioni di Lire. Con queste risorse non si potevano ordinare sicuramente nuovi rotabili all’industria privata, oltretutto impegnata massicciamente nella ricostruzione dei rotabili delle Ferrovie dello Stato.
Come spesso succede, quando la volontà e l’ingegno sopperiscono alla mancanza di risorse, la soluzione adottata dopo faticose ricerche divenne fondamentale per l’immagine storica della Ferrovia Mantova-Peschiera. Senza alcun dubbio le automotrici bianche e azzurre che, alla fine di una complessa operazione di ricostruzione, furono messe in esercizio sulla F.M.P. risultavano “le più belle ed accoglienti automotrici del tempo, vere navi in miniatura per comode crociere su rotaie, nobili ed uniche figlie della passione della grande Ansaldo”. Così recitava un proclama in Internet del Comitato per la riapertura della Ferrovia Mantova-Peschiera.
Questa storia merita di essere ricordata con particolare interesse.
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