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L’inno alla vita di Benedetta

Benedetta Bianchi Porro nacque a Dovadola, in provincia di Forlì, l’8 agosto 1936 dall’ingegnere Guido e dalla signora Elsa Giammarchi.

A novembre la poliomielite le offese permanentemente la gamba destra. Nel 1949 dovette indossare il busto ortopedico e nel 1951 fu operata al piede destro. L’anno seguente la famiglia si trasferì a Sirmione, ove il padre era direttore tecnico della Società delle Terme.

Conseguì il diploma di maturità classica al Liceo di Desenzano del Garda nell’ottobre 1953. Rammentando quell’esame, il compianto professor Mario Marcolini mi disse che, al primo quesito, Benedetta mantenne un sorridente in silenzio. Allo stupito commissario che l’aveva posto il docente del Bagatta fece presente la necessità di formulare domande scritte. La giovinetta si iscrisse quindi alla facoltà di Medicina dell’Università statale di Milano, al dichiarato fine di alleviare le sofferenze umane. Malgrado la sordità ed il progressivo deterioramento della salute, superò diversi esami. Nel luglio 1955 subì la resezione del femore sinistro. Due anni più tardi, diagnosticò di essere stata colpita dalla neurofibromatosi diffusa, o morbo di ReckIinghausen, ossia da molteplici tumori ai nervi.

Nel 1957 sostenne ulteriori esami, ma accusò gravi disturbi di equilibrio e fu costretta ad usare il bastone. Nel 1959, in seguito ad un’operazione al midollo spinale, rimase paralizzata alle gambe. Nel 1962 si recò a Lourdes e venne sottoposta ad altri interventi chirurgici. Nel 1963 perse l’udito, il tatto, il gusto, l’olfatto. Totalmente paralizzata, comunicava in un rudimentale alfabeto per mezzo della mano destra, che conservava un minimo di sensibilità. Nel febbraio di quell’anno perse anche la vista. Il 23 gennaio 1964 si ricongiunse al Creatore.

Il 22 maggio 1969 la salma fu traslata dal cimitero di Dovadola alla chiesa di S. Andrea. Il 25 gennaio 1976 nella cattedrale di Forlì fu aperto il “Processo cognizionale per la causa di canonizzazione”, chiuso il 19 giugno dell’anno successivo. Il 23 dicembre 1993 Benedetta fu proclamata venerabile dal pontefice Giovanni Paolo II. Il 17 novembre 1996, alla presenza del vescovo Attilio Nicora, del parroco Evelino Dal Bon e del sindaco pro tempore, fu apposta una lapide commemorativa all’ingresso della sua dimora sirmionese.

Si legge nel Vangelo di S. Giovanni che il Maestro, rispondendo a Nicodemo, affermò: “Chi agisce secondo verità si avvicina alla luce, senza timore che appaiano manifeste le op(~re sue, perché sono fatte per volontà di Dio”. Anche Benedetta seppe indicare quella luce imperitura che splende oltre la tenebra terrena e rischiara di speranza il nostro incedere quotidiano. Le sue parole, finché le furono concesse, confortarono quanti avevano creduto di alleviarne le pene con la loro presenza. I suoi scritti non costituiscono la mera testimonianza di eroiche virtù, ma documentano un pensiero folgorante. Non dissimile da quello di S. Caterina da Siena e di S. Teresa di Lisieux, entrambe passate “per il crogiuolo della sofferenza”. Memore di S. Paolo – il quale in un’epistola agli Efesini aveva ammonito che occorre “instaurare omnia in Christo”, ovvero fondare ogni cosa sul Salvatore – Benedetta considerò che “la croce è il senso di tutto” e, conseguentemente, che “bisogna fidarsi di Dio ad occhi chiusi”.

Forte di tali conquistate certezze, dalla sua camera silente donò ai familiari, al vieppiù crescente novero di amici e all’umanità intera un sublime messaggio di amore e di gioia ritrovata, conferendo all’esistenza terrena il suo autentico significato cristiano.

Ne costituiscono mirabile testimonianza i pensieri vergati tra il 1961 ed il 1962 con una grafia ormai incerta, che singolarmente acuisce il nitore concettuale. Valga qualche citazione. “La carità è abitare negli altri”. “Tu apri la mano e dai, quando occorre, il necessario”. “L’amore è luce che viene dal cielo”. “Solo il presente conta, l’eternità è fatta di oggi, Dio è Colui che è”.

Secondo padre David Maria Turoldo, la venerabile fanciulla dimostra che il Cristianesimo è possibile. Per il fratello minore Corrado chiunque l’abbia conosciuta ha mutato il suo cuore. Nell’assentire, aggiungo che nella sublime lezione di Benedetta meritano grande rilievo la serenità conseguita attraverso la sofferenza, nonché la concezione della vita come bene da amare e proteggere in ogni circostanza.

Con il necessario ausilio dei familiari, ella scrisse a Natalino, afflitto da gravissima infermità: “lo so che, in fondo alla via, Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora nel letto, che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza fino alla consumazione dei secoli”.

Mi ricordò la cara madre Elsa che Benedetta si faceva leggere sovente la poesia nella quale Pascoli annotò:

“La nube nel giorno più nera / fu quella che vedo più rosa / nell’ultima sera”.

Alla luce della cristiana speranza i versi assumono un significato particolare e il pensiero di Benedetta, compagna d’infanzia, conforta l’ora della vita in cui maggiori cadono, virgilianamente, dagli alti monti le ombre.

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