Gli attentati di tre settimane fa in America e le reazioni internazionali hanno scosso le coscienze e obbligato tutti a riflettere sulle cause dei conflitti e sulle loro conseguenze. Spazzando via molte illusioni sull’intoccabilità di una super potenza come gli Usa e sulla stabilità della pace per il mondo occidentale. Tra chi si sta interrogando su tutto ciò in questi giorni c’è il professor Franco Farina, intellettuale rivano, che partendo da un aneddoto scrive:«L’olivo della pace, con cui qualche anno fa è stato inaugurato l’omonimo giardino pubblico vicino alla stazione delle corriere di Riva (“parco” è un nome un po’ pomposo per un piccolo spazio verde strappato alla crescente urbanizzazione…) sta morendo. Nessuno pare se ne sia accorto.La cosa non può non assumere valore emblematico in un frangente come quello che stiamo attraversando.Ricordo vivamente quel mattino di sole, i bimbi delle elementari con i palloncini multicolori affluiti per la circostanza – fresco mosaico interculturale. Nell’aria, l’eccitazione dell’uscita all’aperto, alternativa al chiuso della scuola, sofferto specie a quell’età.In testa, pavesati col tricolore, i sindaci del comprensorio altogardesano. Mi trovavo nel “parco” per caso. Fuori programma, chiesi e ottenni di recitare una lirica bellissima e sconosciuta del poeta iracheno Abd-el-Waheb El Bayati: “Si dovrebbe poter ridere al sole…”. Poi i palloncini liberati dalle mani degli scolaretti si levarono alti nel cielo fino a scomparire – poesia vivente e collettiva scritta col gesto, a suggello della poesia verbale. E venne il momento culminante della simbologia della fondazione di pace: la messa a dimora dell’olivo, subito rincalzato con palate di terra dal sindaco di Riva e via via dalle altre personalità presenti, fra cui alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite. Fu come se ciascuno di noi si sentisse chiamato a contribuire concretamente con la sua brava palata di terra. La guerra, allora, pareva un’ipotesi astratta, remota.Forte della complicità che mi legava a quell’isola verde in mezzo a un traffico urbano sempre meno a misura d’uomo, ho seguito giorno per giorno lo stato di salute della tenera piantina che riassumeva in sè il senso del “parco della pace” (sulla targa recante la scritta, una mano rozza di adolescente protervo aveva disegnato nel frattempo un vistoso fallo azzurro…)L’olivo sembrava avesse attecchito bene, ad arguire dal moltiplicarsi xdelle foglioline argentee. Vi lessi un felice auspicio per le sorti del pianeta, e mi parve giusto riferirne in un messaggio poetico al segretario generale delle Nazioni Unite con cui fra l’altro gli esprimevo la mia riconoscenza di cittadino del mondo per la politica di pace da lui perseguita con fermezza nella martoriata area del Vicino Oriente. Contro ogni aspettativa, arrivò dal Palazzo di vetro una lettera datata 4 marzo 1998, con la quale Hasan Ferdous mi ringraziava a nome di Koffi Annan “per le parole di incoraggiamento”. In particolare, mi colpì il pensiero centrale della missiva sulla necessità di pace costruita dal basso con l’apporto di ognuno di noi e sull’importanza vitale di una “comunità internazionale determinata e coesa”. Come non pensare alle palate di terra a rincalzo dell’olivo? A distanza di tre anni, in questi giorni lacerati e disumani, le parole assumono un sapore di amara provocazione.Da qualche tempo l’olivo simbolico appariva intristito, sfferente, all’unisono con la passione del mondo. E giorni fa, mentre compivo la consueta passeggiata rituale mattutina, ho capito – con la forza delle rivelazioni improvvise – che la pianta stava morendo. Colpa, forse, della scarsa vigilanza dei giardinieri, in questo “imprevidenti” come altri “giardinieri” preposti alle sorti della pace?»
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Un fatto che non può non assumere in questi momenti un valore emblematico.
Nel giardino della pace il piccolo olivo sta morendo
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