venerdì, Novembre 22, 2024
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Terzo appuntamento con i poeti di Malcesine

“O Malcesine mia, cinta d’uliva…”

“O Malcesine mia, cinta d’uliva / incoronata di mural corona, / securo porto di quiete estiva”: è questo l’incipit di una delle poesie che Giuseppe Abati (1867 – 1945), dedicò a Malcesine e che anticipa alcuni tratti chiave della sua personalità di letterato e poeta:  il forte legame con la cittadina e una capacità descrittiva notevole, inserita in un’armonia di toni e di rime.Giuseppe Abati non nacque a Malcesine, bensì a Portogruaro nel 1867; malcesinese lo  fu da parte di madre, Romola Turazza, sorella dell’ingegnere Gio-Batta Turazza. Abati  visse per molto tempo lontano dal lago, poiché il padre Pietro, funzionario di dogana, era spesso costretto a trasferimenti. Laureatosi a Padova alla facoltà di Lettere, Abati si  dedicò all’insegnamento, professione che lo portò in varie parti d’Italia: in Sicilia, a Forlì, in Emilia Romagna e a Bergamo, sede, quest’ultima, che gli consentiva di raggiungere il Garda ogni qual volta lo desiderasse. Durante questi soggiorni, Abati era ospitato dallo zio, il quale accolse sempre con  calore e generosità lui e i suoi quattro figli. La stessa Romola, una volta divenuta  vedova, si ritirò dal fratello. Così la famiglia si riuniva, ospitata nelle due ville dello zio, che Abati chiamò Miralago e Guarda: “A noi questi ozi l’Ospite concede, / il signor della Guarda e Miralago, / ville sorelle (l’una alla montagna / come silvestre forosetta, l’altra / ritta sull’acque)…” Per Giuseppe Abati tornare a Malcesine non significava solo vacanza e riposo, ma era appunto un ritorno, un ricongiungimento con i cari, con gli amici, con la sua stessa infanzia; e quando era lontano la nostalgia si faceva forte, il ricordo di giornate felici diventava fonte d’ispirazione poetica. Ne nacque una poesia che per i suoi toni si avvicina a quella dei pomeriggi afosi, a Bologna, del Carducci, quando il poeta vate si lasciava allora trasportare, come in un sogno, nella sua Maremma, o alle memorie infantili di Pascoli a San Mauro. Versi poetici quelli di Abati non certo dello stesso livello, ma dai sentimenti fortemente sentiti e colmi d’amore.Dell’attività letteraria di Abati dobbiamo  ricordare il dramma Nausica, scritto per le nozze della figlia, e le raccolte di poesie Xenia, cioè “ospitalità” (1901, Forlì ), e Bianco e Nero (1914, Bergamo). In Bianco e Nero troviamo una serie di sonetti che fungono da commento poetico ad alcuni disegni realizzati dall’amico pittore Carlo Gozzi di Bergamo. Di seguito riportiamo due sonetti di questa raccolta, commenti di un disegno raffigurante un lago, circondato da un cielo scuro con poche stelle: di certo Abati, guardandolo, tornava con la mente e il cuore al suo amato lago di Garda.Il lago per la pigra correntia / delle stelle nel trepido barlume / porta lo stuol dei sogni in sua balia, / bianche, sospese lievitanti piume. / Più su, più su, per la galassia via, / fosforescente constellato fiume, / veleggia la gioconda nave mia / dell’arte al soffio e dell’amor nel lume. / Da poppa io fiso l’Orsa a cui l’antenna or monta in groppa, or sbanda, or s’inchina, / caracolla e s’inalbera e s’impenna; / e il pensiero, nell’ultima, smarrito, / vertiginosa vanità turchina / ascolta la canzon dell’infinito. (1911)Io non credo che all’alma sian dolcezze / più fresche del notturno navigare, / quando da i monti scendono le brezze. / Profonda, umida pace, cielo e mare; / guizzi, bagliori, lucide nerezze; / murmuri, note di parole care, / baci, boccheggi, liquide carezze. / Agli occhi delle mille stelle intente, / dinanzi al ciel sincero a lui converso, / chi non si pensa l’unico vivente / superbo solo in faccia all’universo? / Ma se poi guarda in sé, chi non si sente / atomo nullo nel gran Tutto sperso / per l’alta nera Infinità silente? (1914)

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