Il secondo conflitto mondiale era finito ormai da quasi quattro anni, ma nessuno poteva dimenticare le sofferenze ed i lutti da esso indotti.
All’inizio di quel lontano 1949 sopravvenute esigenze urbanistiche avevano imposto di estirpare gli alberi del piccolo parco della rimembranza che sorgeva in prossimità del castello scaligero di Sirmione. Il 4 novembre dello stesso anno fu costituito un comitato che si propose di onorare in altra e non meno decorosa forma i concittadini caduti in guerra.
Tra le varie proposte prevalse quella di fondere una grande campana e di collocarla sul colle dove sorge il tempio longobardo di San Pietro.
In una lettera scritta il 5 maggio 1951 dal segretario comunale Lorenzo Ronchi si legge che il bronzo “avrebbe avuto le seguenti finalità: “a) suonare per tutti i caduti d’Italia nei giorni in cui vi fu maggiore spargimento di sangue sui campi di battaglia e recare incisi i nomi dei sirmionesi che fecero per la Patria olocausto della loro vita… b) suonare nei giorni di burrasca e di nebbia per dare possibilità ai pescatori di orientarsi verso la riva e così evitare altre non improbabili disgrazie oltre quelle che hanno colpito negli scorsi anni”.
La Chiesa di San Pietro Mavino e la campana dei caduti inaugurata nel maggio del 1955. Nel Giornale di Brescia dell’epoca Damaso Riccioni annotò “… Tra gli ulivi del colle, ed intorno al tempio romanico, è confluita – con riverente slancio – la vita che di solito evoluisce nella lieta penisoletta…”. “…Una lapide marmorea reca incisi i versi dedicati alla campana, cui si dette il nome glorioso e fatidico di Julia. L’autore è monsignor Giuseppe Chiot, che nel 1944 aveva impartito la benedizione – in articulo mortis ai condannati del processo di Verona…”
Molti abitanti della penisola benacense, ma non essi soltanto, concorsero a raccogliere le somme necessarie all’opera. Particolare menzione tra tutti, oltre al citato Ronchi meritano ili medico condotto Mario, Migliorati, il sindaco Cesare Cenzi (padre della medaglia d’oro Mario), l’industriale di Lumezzane Giacomo Gnutti (padre della medaglia d’oro Serafino) e il parroco don Lino Zorzi.
L’archivio del Comune rivela l’assiduo impegno e l’incrollabile fede dei promotori. Già Orazio, aveva affermato che nulla concede la vita ai mortali senza grande fatica. E finalmente il sogno si realizzò. Duemilatrecento chili di metallo furono acquistati dalla ditta Minotti di Milano.
La società Italcementi di Bergamo fornì centotrenta quintali del suo prodotto a condizioni di grande favore. Lo scultore Angelo Righetti venne incaricato di modellare la campana e di ornarla con quattro formelle in alto rilievo.
La fusione fu commessa alla ditta Cavadini di Verona. L’architetto Mario Moretti offrì il progetto del monumento. Il 22 maggio 1955, giorno della solenne inaugurazione, Damaso Riccioni annotò sul “Giornale di Brescia”: “Per l’intera mattinata, Sirmione s’è raccolta idealmente all’altura di San Pietro, in Mavino. Partecipazione plenaria di autorità, di sodalizi patriottici, di popolazione, di turisti italiani e stranieri. Tra gli ulivi del colle, ed intorno al tempio romanico, è confluita – con riverente slancio – la vita che di solito evoluisce nella lieta penisoletta…”. Una lapide marmorea reca incisi i versi dedicati alla campana, cui si dette il nome glorioso e fatidico di Julia.
L’autore è monsignor Giuseppe Chiot, che nel 1944 aveva impartito la benedizione – in articulo mortis ai condannati del processo di Verona. Ne riporto la traduzione, priva dell’incisiva bellezza del testo latino: “L’onda dei rintocchi – lanciata alla terra, alle acque, al cielo, – sia preghiera, carme, inno di gloria. – A quanti il dono della patria godono da vivi sia monito – che senza sacrificio non vi é amore”.
È trascorso molto tempo da quella radiosa domenica di primavera.
Fogli ingialliti e vecchie fotografie tramandano una vicenda che onora la terra di Catullo.
Adesso che quasi tutti i protagonisti hanno concluso il loro cammino terreno, pare doveroso rammentarli con gratitudine sincera.
E con le parole del Foscolo: “Sol chi non lascia eredità d’affetti / poca gioia ha dell’urna…”.