lunedì, Dicembre 23, 2024
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Viaggio nella cucina benacense che non dimentica le origini legate alla pesca, rivitalizzandole nel gusto corrente

Pesci nobili e pesci cortigiani alla corte del re carpione

Riprendiamo il discorso sulla cucina gardesana avviato qualche settimana fa, per dire che è difficile trovare nella lista di alberghi e ristoranti di tutto il Garda il carpione, ossia il pesce d’acqua dolce più pregiato in assoluto, appartenente al gruppo dei Salmonidi – come sottospecie della trota lacustre – però presente solo nel lago di Garda e tutelato da norme di pesca rigidamente controllate. Fa eccezione l’Osteria dell’Orologio di Salò, che lo propone bollito al vapore ma avvertendo che si tratta di specialità stagionale. Quel “bollito” non significa un trattamento banale, ma si riferisce al fatto che il carpione ha carni delicatissime. Pertanto, se lo si cuoce con leggero bollore, nulla va perduto della finezza del suo gusto. Un tempo, per conservarlo lo si faceva soffriggere con poco olio, molto aceto e verdure, appunto con il sistema detto «in carpione», oggi ritenuto adatto per altri tipi di pesci di fibra più robusta, come tinche, anguille, alborelle. Luigi Carnacina, autore intorno agli anni Settanta delle più accreditate opere gastronomiche, come «Cucina dall’A alla Z», riteneva il carpione superiore al tanto celebrato «omble chevalier» del lago Lemano, pesce della famiglia dei salmerini, servito nei banchetti in onore dei capi di Stato a Ginevra. Tra l’altro, il salmerino è un pesce di origine nordica insediato nei laghi svizzeri e italiani più freschi (come l’Iseo) in epoca relativamente recente, mentre le virtù del carpione hanno ispirato persino antiche leggende. E quando Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai, fu ospite piuttosto turbolento dell’Abbazia di Maguzzano e dell’attigua fattoria Macarona, dalla quale trassero origine le poesie Macaroniche, scrisse questo commento: «Si mangia sempre del buon pesce da quelle parti: sardène, anguille, carpione, tinca, trote». Una sola dimenticanza, il luccio, forse escluso dalle mense religiose perché ritenuto temibile «lupo di lago», senza pietà per gli altri pesci. Ma vediamo cosa continua a proporci l’attualità gardesana. «Al Porto» di Moniga, nella patria storica del Chiaretto, la patronne Wanda Perotti ingentilisce il palato degli ospiti con l’insalatina di cavedano, il tortino di salmerino in salsa all’aceto di mele, le pappardelle alla trota, i tagliolini integrali al luccio, il coregone e broccoletti. Quei tagliolini e quelle pappardelle sono un’ulteriore riprova che la cucina gardesana, in tema di paste autoctone, non ha mai brillato. È stata maggiormente propensa alle zuppe con verza, patate e fagioli, alla panada, alla minestra sporca, con pezzetti di pollo e fegatini. Mentre dalla Bassa Bresciana arrivavano, più di rado, le mariconde e il riso alla pitocca. Invece, dalla sponda veneta sono sbarcati sulla costiera occidentale i ’bigoli’, da preparare con l’apposito torchietto. Questa caratteristica pasta fatta in casa, ha tenuto lungamente a bada gli spaghetti, fino agli anni Trenta considerati una rarità nel bacino lacustre.In un curioso libretto, «A cena dai nonni», pubblicato nel 1982, a cura del Club 3P di Puegnago del Garda, viene spiegato in dialetto locale, piuttosto ostico ma ricco di diminutivi e vezzeggiativi, come si fanno i «brofadei». Gli ingredienti sono fra i più semplici: lardo, cipolle, fagioli, farina bianca o gialla, acqua e sale. Escluso l’olio d’oliva, perché troppo caro e prezioso. Per la dose di farina ci si regola a occhio, alla fine della cottura assumerà la forma di chicchi di granoturco. Invece, crepi l’avarizia, un bicchiere di olio d’oliva ci voleva e ci vuole per il «chisol», in termini eleganti la schiacciata o stiacciata dei fiorentini, con farina, lievito, due uova, scorzetta di limone tritata e un po’ di latte. La padella va unta con un po’ di burro e pane grattugiato, mentre le uova si mescolano con un po’ di zucchero. Ci vuole mezz’ora di cottura. Da non disdegnare anche qualche rametto di rosmarino da mettere sopra il chisol. Tornando ai pesci, il ritorno in auge della bianca polpa dei lucci, trova conferme del favore goduto da questa vivanda nel Rinascimento. In un banchetto indetto dal duca di Milano, Giovanni Galeazzo Sforza, nella lista delle vivande si legge questa voce: «Lucci grandi lessi, coperti de piperara negra». I granelli di pepe nero, la spezia che diventerà la più popolare in Italia. Adesso l’aggiornamento che si può degustare al ristorante Vecchia Lugana di Sirmione prevede «luccio al profumo di pesto con patate e fagiolini». Che curioso frangente, il pesto dell’ammiraglio Andrea Doria entra a vele spiegate nel golfo tanto amato dal poeta Catullo. E così la polpa dell’Exos lucius prende il posto delle trenette “avvantaggiate” (linguine integrali) in questo scambio marinaro-lacustre. Certo, si può restare perplessi dal punto di vista filologico ma come attrattive di saporosità il bersaglio è centrato in pieno. Un piatto storico che mantiene intatto tutto il suo elegante fascino è quello del «luccio in salsa», preparazione fra le predilette alla corte dei Duchi di Mantova, quando le allestiva il capocuoco Bartolomeo Stefani, autore nel 1662 della notevole opera «L’arte di ben cucinare». Il luccio, lessato in court bouillon e ben sfilettato, viene ricoperto con una invitante salsa, preparata a parte, a base di olio, aceto, acciughe, capperi. La preparazione va lasciata riposare, coperta, fino all’indomani. Tradizionalmente, la si serve con fette di polenta abbrustolita, come antipasto o come primo. Per il vino da imbarazzo della scelta fra il Lugana, quello che sa di fiori di biancospino e caprifoglio, ma anche di pera, pesca e mandorla, oppure il Garda Classico Chiaretto, rosato limpidissimo con riflessi ambrati, così morbido, fresco, seppur di vena imperiosamente asciutta.

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