venerdì, Novembre 8, 2024
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Nei secoli scorsi il riso si coltivava sulla riviera. E creò anche problemi

Risotto con la tinca. È tradizionale non un’invenzione

Il risotto con la tinca è uno dei simboli, dei monumenti della cucina gardesana. È diffusissimo da Garda in giù e spopola in particolare nei ristoranti di Lazise. Qualche anno fa s’è persino tenuto un campionato rivierasco del risotto con la tinca. Solo che fra gli appassionati se ne fa un gran discutere: è o no un piatto tradizionale? C’è infatti chi sospetta si tratti di una moderna invenzione della ristorazione. E a rendere dubbiosi i sostenitori d’una simile tesi è proprio l’uso del riso: «Che cosa c’entra col Garda?» dicono gli scettici. Invece il riso col Garda c’entra. O meglio, c’entrava. Perché nei secoli passati lo si è coltivato anche sulla riviera. A Garda c’è tuttora una località che porta il nome di Risare. La zona oggi è quasi tutta urbanizzata, ma che lì ci si coltivasse il riso è testimoniato da antichi documenti. Nereo Maffezzoli, studiando i registri della Corporazione degli antichi originari di Garda, ha trovato una nota del 10 novembre 1686 nella quale s’incolpano d’una epidemia di tifo le «Risare nel centro di questa valle angusta». E risale al 1686 il processo relativo ai presunti dannosi effetti della presenza delle risaie in Garda studiato da Bruno Chiappa sulla scorta dei documenti rintracciati nel fondo «Ufficio di Sanità» dell’Archivio di Stato di Verobna. Vi si legge che il consigliere della comunità di Garda Vincenzo Pasotto attribuiva alla «mala qualità dell’aria, che resta infetta dal fetore che cagionano alcune risare» quel «color giallizzo e brutto» della sua gente. La causa era probabilmente altra, ma quasi di sicuro queste preoccupazioni sanitarie decretarono la fine della coltivazione del riso nella valle di Garda. Insomma: nel Seicento a Garda il riso era di casa. Non è dunque così strano che lo si sia unito al guazzetto di tinca per ricavarne uno dei miti della cucina lacustre. E che questo risotto appartenga da tempo alla cultura gastronomica gardesana lo dimostra Floreste Malfer. Nel suo «Benaco» del ’27 testimonia come fosse il piatto forte delle cene dei pescatori che operavano in cooperativa: «La festa del risotto – scriveva l’ittiologo – ha luogo normalmente in qualche ricorrenza del luglio-agosto, tra le piccole compagnie esercenti in cooperativa le varie pesche. È corona e premio alle lunghe fatiche estive ed è un’ora di gaudio lungamente attesa, assurgendo, in luogo, il risotto di tinca a piatto veramente regale». Era addirittura «il sogno dei locali seguaci d’Apicio». Che poi possa trattarsi d’un piatto d’una qualche antichità lo farebbe pensare un indizio, pur vago, legato alle consuetudini della cucina dei pescatori gardesani. Nelle case «pescaore», infatti, il risotto lo si condiva non già con le carni della tinca, che venivano servite a parte, magari in salsa, bensì con le interiora del pesce. Un uso che ha qualche curiosa affinità con uno dei piatti del più importante cuoco italiano del Quattrocento: Maestro Martino. La sua «menestra de trippe de trute» era fatta con interiora di trota in brodo, con aggiunta di prezzemolo e menta. Così come i pescatori di Garda usavano, per il loro risotto, interiora di tinca e biete. Soltanto una coincidenza?

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