Fra i moltissimi personaggi che nei secoli per un’ infinità di ragioni hanno dimorato sul Garda, ce n’è uno abbastanza singolare: Gorgio Baffo.
“Genio sublime, poeta nel più lubrico dei generi, ma grande ed unico” lo definisce Giacomo Casanova nelle sue memorie.
Giorgio Baffo, o meglio Zorzi Alvise Baffo come appare nelle anagrafi venete, nacque a Venezia l’ 11 agosto 1694.
Apparteneva ad una famiglia della piccola nobiltà veneta, moderatamente agiata. Nel 1709, quando Zorzi aveva quindici anni, una sventura colpì la sua famiglia. Suo zio Mattio venne accusato di aver sottratto denaro mentre era cassiere della “camera dell’ armar” ed era stato imprigionato. Nell’ agosto 1714 il Consiglio dei X lo mandò assolto, ma la famiglia ne aveva ricevuto un notevole sconquasso. Quasi a parziale riparazione della sfortuna, quattro mesi più tardi nel rituale giorno di Santa Barbara (4 dicembre) il giovane Zorzi “cavò la balla d’ oro”, sistema per l’ ammissione dei giovani patrizi all’ amministrazione dello stato, guadagnando l’ ammissione al Maggior Consiglio ad un’età di cinque anni inferiore a quella di norma stabilita di venticinque anni.
Baffo decise di intraprendere la strada dei magistrati “sotto Quarantia”, con incarichi ad un tempo propedeutici e in certo modo dipendenti dalle Quarantie, che erano i centri del potere giudiziario della Serenissima. Quale primo incarico, dopo alcuni mesi di parcheggio, il 2 gennaio 1716 egli venne eletto castellano della fortezza di Peschiera per la durata di sedici mesi ed assunse l’ incarico il 16 maggio del medesimo anno.
Era il primo scalino del cursus honorum che la Serenissima faceva compiere ai suoi funzionari destinati a fare carriere amministrative. In quel tempo, terminata la guerra di secessione spagnola da qualche anno, e venuta meno la presenza di truppe straniere nei territori della Repubblica, le castellanie avevano perso la loro importanza militare ed erano ritornate ad essere ciò che erano in tempo di pace: incarichi appetiti solo in quanto garantivano un modesto stipendio.
Zorzi non termina il suo incarico a Peschiera, ma tre mesi prima della scadenza, il 15 giugno 1717 ritorna a Venezia. Non si ha sinora notizia dell’ opera del Baffo durante il suo periodo di comando della fortezza di Peschiera. Forse qualche diligente ricerca negli archivi veneti potrà rivelare qualcosa. Sei mesi dopo, il 17 gennaio1718 ottiene la castellania di Asola, nel Bresciano, per la durata di ventiquattro mesi. La compie integralmente e ritorna a Venezia il 17 aprile 1720. Dopo di che segue, sempre a Venezia, la carriera che culminerà nel 1732 con l’ ottenimento di un seggio nella Quarantia Criminal in cui svolse i suoi compiti con correttezza e competenza universalmente riconosciute. Non ebbe figli e considerò che in un certo modo i suoi sonetti fossero la sua discendenza. … cussì ho fatto dei fioli co la mente / za che no li ho podesti far col c…o / che in questi starò vivo longamente …
E veramente questi “fioli”, hanno mantenuto vivi la verve ed il pensiero del poeta, la cui importanza viene oggi sempre maggiormente riconosciuta, dopo un lungo periodo di oblio ufficiale, causato sia dalla pruderie del bel tempo andato, sia per la difficoltà di distinguere nei versi quanto vi fosse di fescennino da quanto vi fosse di lirico.
Guillaume Apollinaire nella prefazione da lui anteposta alla traduzione francese delle poesie del Baffo del 1910 dice: “ Baffo può essere considerato il maggior poeta priapico mai esistito e contemporaneamente uno dei poeti più lirici del XVIII secolo.” Egli scriveva in dialetto veneziano, non nel veneziano dei popolani del mercato di Rialto, ma in una specie di patois ingentilito, forse in uso fra i rappresentanti della nobiltà veneta del tempo, che caratterizza la “poesia barona” baffiana. Come afferma Apollinaire “ molti dei poeti italiani si sono serviti del loro dialetto natale. Vi è così una folla di autori la cui notorietà non ha mai oltrepassato la loro provincia e le opere che hanno scritto sono le più capricciose del mondo e di un ardire di cui non si ha un` idea. “Singolarmente, così come nel suo incarico alla Quarantia Baffo fu sempre integerrimo, così “ il carattere di Baffo era fatto di urbanità e di pudore. Non lo si sentiva mai impiegare un termine volgare.” Non c’è solo erotismo e lirismo nella poesia baffiana. Sempre da Apollinarie: “Il Baffo era contento della sua epoca, era felice di vivere, e di vivere a Venezia, metropoli anfibia, città umida, sesso femminile dell’Europa. Senza il Baffo non ci si immaginerebbe tutto ciò che fu la decadenza piena di voluttà della Serenissima Repubblica.
Attraverso di lui conosciamo la vita sessuale di Venezia, le feste, le osterie, i casini, il gioco, le ballerine, le monache libertine. Non c’è evento che il Baffo non canti con un’ oscenità sublime: sia la venuta del duca di York, sia l’ elezione di un nuovo papa, sia i debutti di un’attrice, sia le disavventure dei Gesuiti.”
I poeti vernacoli, sia il Baffo, come pure Carlo Porta, Gioachino Belli o lo stesso Trilussa ci tramandano gli umori della gente che viveva in un determinato momento storico. Gli aspetti del tempo sono ritratti dal vivo, carichi di vita, pieni di sentimento, come la gente dell’ epoca li sente e non fissati in un’ asettica classificazione storica come farfalle piantate con gli spilli nelle cassette di un entomologo.
Per quanto riguarda l’ oscenità delle poesie baffiane, con quello che gira oggi sulla carta stampata, le parolotte – “palabrotas” per usare un termine di Lorca – nei versi di Zorzi Baffo sono ai nostri tempi quasi cosa da educande. Fa piacere che il Garda sia stato uno dei gradini della scala del progresso civile di questo patrizio veneto e grande poeta.