Commosso. Io. Di un sentimento così nostalgico e profondo da non cogliere antica emozione analoga per quante ricerche interiori abbia tentate. Forse gli si conviene soltanto un vocabolo, intraducibile, della parlata portoghese: saudade. Merito di un pinocchietto che si anima del filo elastico infilato al suo interno e che gli consente di inchinarsi, di muovere il capino, di sedersi. Acquistato su una bancarella di Firenze, la città di Carlo Lorenzini il padre suo adottivo fulminato da una sincope che fanno centodieci anni giusti, non somiglia per niente a quello che mi tenne compagnia negli anni di guerra e al quale faceva da supporto il libro famoso acquistato per lire 8 al mercatino del libro allestito in parrocchia, Sant’Alessandro in città. L’originario non era snodabile e, a differenza di questo magro da far concorrenza a un fachiro, che ha giubba rossa e verdi calzoni, vestiva una tunicella a fiori. Anche era più alto di una spanna buona. Offerta in dono, la marionetta mi è venuta da un amico singolare giunto in Italia dall’Est con il bagaglio di un’educazione asprigna che a volte lo rende persino intrattabile e che gli preclude la consolazione di tanti piccoli eventi. Essi sgravano la quotidianità di noi, venuti su in ben altra atmosfera. Danno qualità alla vita. Manca del tutto, a lui, la capacità di esprimersi con gesti e parole che sottintendano un ideale. Perché non ne conosce; se in origine c’erano, le forche caudine scolastiche che ha attraversato gliele hanno espulse di dosso. Condannate per decreto legge come retaggio di un esecrato mondo borghese. Eppure la conversazione dedicata a Pinocchio e alle sue avventure deve avergli lasciato segno di una certa profondità, orma del gradimento che la lettura collodiana ha impresso nei lettori di ieri non meno che in quelli di oggi, se è vero, proclama una statistica, che i ragazzi d’avvio Millennio, disdegnando Cuore, si lasciano invece attrarre dal racconto del pezzo di legno sagomato da Geppetto e che alla fine si fa bambino. Ma, viene da aggiungere, il ruolo che una narrazione assume nella nostra vita non è soltanto riferibile alla capacità di evocare la trama proposta dall’autore e misurabile sulla sua confidenza con lo scrivere bene. Altro è da valutare, cioè l’eco che le pagine rinnovano ogni qualvolta le si richiami alla memoria. Pinocchio per me significa una rimpatriata nella fanciullezza. Con riferimenti puntuali: la guerra e la fame, tormento in molte case prima ancora che gli uomini partissero per il fronte. Tesserato il pane e tutto il resto. Eppure, scorrendo i righi in cui si «vede» il burattino placare il proprio appetito contentatosi delle bucce di pera dapprima sdegnosamente rifiutate; o consumare un piatto di foglie di cavolo aromatizzate dalla promessa di un confetto, lo stomaco insorgeva con ineludibile richiesta: gli arrivasse qualcosa, più presto che in fretta. Saccheggio immediato della madia domestica quanto mai parca nell’elargire tanto che una volta fu giocoforza arrendersi a un pugno di fagioli ancora nel baccello. Non c’era altro. Indigestione inevitabile. Il ricupero di queste esperienze è avvenuto durante una conversazione a molte voci dedicata alla letteratura infantile e in origine suggerito da un riferimento ai molneriani ragazzi della via Paal. Noti all’ospite straniero (quanto ignoti Pinocchio, la Fatina, il Gatto e la Volpe) così da indurlo a evocare momenti per lui più vicini nel tempo ma non meno intensi dei nostri e, chissà, a gettare un ponte tra emozioni proprie e altrui, scoprendo di condividerle sino a essere indotto, per dare testimonianza palmare dell’inedito stato d’animo, all’acquisto (profittando di una casuale trasferta in Toscana poiché adesso sta sul Garda) del pupazzetto sagomato in serie. Non di gran costo, no di certo. Eppure molto gratificante per chi se lo è visto recapitare dentro un anonimo sacchetto di carta bianca. Per un extracomunitario le smagrite lirette da mettere assieme per concedersi pur minimo lusso personale costituiscono assillo di quotidiana riproposta. Inimmaginabile quindi ne sottragga al proprio portafogli per acquistare un regalo destinato a altri. Ma così è avvenuto, né ci risulta con rimpianto del donatore che, sia chiaro, dopo tanta generosità non si sottrae alla sofferta consuetudine di trattare la nostra moneta con un «lei» molto rispettoso. Addirittura ossequioso. Quando per anni si è avuto a che fare con fiorini del tutto estranei alla mitica (e fiorentina) consanguineità con l’oro… Danilo Tamagnini
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I ricordi e il patrimonio comune dell’infanzia suscitati da un pupazzetto collodiano