giovedì, Novembre 14, 2024
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L’astio di D’Annunzio per i tedeschi e la determinazione dei custodi del monumento di Gardone lo preservarono dalle mire naziste. I protagonisti ricordano come la casa del Vate venne protetta dai saccheggi

Vittoriale, quell’enclave nella Rsi

Quale fu la sorte del Vittoriale durante la Repubblica di Salò? Manca una ricerca che faccia il punto sul principato dannunziano nel periodo dell’occupazione nazista. Nemmeno un recente convegno sulla Repubblica Sociale Italiana ha sfiorato l’argomento. In quegli anni difficili, custode del Vittoriale fu l’architetto Gian Carlo Maroni; dal marzo 1938 e sino alla morte, avvenuta nel 1952, fu, infatti, Soprintendente del monumento da lui progettato. Il pittore Franco De Lai ricorda di essere entrato a lavorare al Vittoriale nel giugno 1943. Recentemente ha raccontato che nel mese di giugno di quell’anno, l’architetto Maroni cercava un aiuto, un disegnatore. «A condurmi al Vittoriale da Maroni fu mio padre – ha spiegato -; era un pittore assai conosciuto anche per le mostre che aveva allestito con successo a Gardone negli anni Trenta, al Casinò e alla Galleria d’arte. Avevo circa sedici anni. Ci accolse con grande cordialità. Mi chiese se ero in grado di disegnare. In sostanza si trattava di preparare i lucidi del progetto del Mausoleo che l’architetto aveva già messo a punto». Franco De Lai rammenta anche la grande preoccupazione durante gli eventi del 1943. «Va ricordata la caduta del fascismo avvenuta il 25 luglio, dopo che Mussolini era stato messo in minoranza nella seduta del Gran Consiglio. Il 3 settembre vi fu poi l’armistizio al quale fece seguito il giorno 8 con il crollo dell’esercito. Proprio in quei mesi difficili mi recavo al Vittoriale tutti i giorni per lavoro: mi era stato dato un tesserino speciale di riconoscimento. Alcune settimane dopo l’8 settembre, Maroni fu avvertito un giorno che all’ingresso c’erano ufficiali e soldati tedeschi. Ci fu un momento di panico: era la prima volta che volevano entrare al Vittoriale. Si diffuse il timore che intendessero occuparlo o che volessero portare via le automobili o alcuni oggetti dalla Prioria: Hitler ben sapeva che d’Annunzio era stato, per così dire, un suo nemico. Si limitarono, invece, a compiere una visita e poi se ne andarono. E fu un sollievo per tutti!» La tutela assoluta del Vittoriale durante la Repubblica di Salò, grazie all’architetto Gian Carlo Maroni, è opinione condivisa da molti ed anche da Fausto Galeazzi, lucidissimo testimone di quegli anni. «Ricordo che quando salii al Vittoriale per la commemorazione dell’anniversario della morte di Gabriele d’Annunzio, tutti, ufficiali tedeschi e gerarchi, erano fuori dal recinto del Vittoriale; dentro non vi era nessuno. Entrammo poi tutti, quando giunse Mussolini». Alla salvaguardia del monumento giocò anche la fortuna. Pietro Biancardi scrisse, nell’agosto 1945 sulla prestigiosa rivista milanese «L’Illustrazione Italiana», che il principato dannunziano, subito dopo la nascita della Repubblica Sociale Italiana, fece gola a molti. Si pensò di ospitarvi il ministero della Cultura o la sfollata Accademia d’Italia, di cui lo stesso Gabriele d’Annunzio era stato presidente dopo la scomparsa di Guglielmo Marconi. Fu anche ventilata la possibilità che diventasse la dimora di Mussolini. Ma il duce «fece capire che il Vittoriale, con la sua mole di pietre bianche, era un bersaglio troppo individuabile dall’alto». Inoltre «aveva guardato sempre d’Annunzio con sospetto, e non gli garbava di dormire con quel celebre morto muro a muro». E così la casa del vate non fu occupata. Quanto ai tedeschi non gradirono probabilmente utilizzare la dimora di un personaggio che era sempre stato antinazista. Gli ufficiali non ignoravano sicuramente che d’Annunzio aveva scritto una pasquinata contro Hitler. Poco prima di morire – secondo Gianfranco Contini – il poeta compose l’epigramma «probabilmente in occasione della prima adesione fascista alla politica razziale. Bersaglio principale Adolf Hitler, di cui erano caratteristici il ciuffo e la voce rauca nei violenti discorsi, nonché notissimo il mestiere d’imbianchino a Vienna». Concluse, infatti, la pasquinata con i versi: «Su l’acciaio dell’elmo / ti gocciola il pennello d’imbianchino. / Dai di bianco all’umano et al divino». E Hitler divenne l’Attila della Pennellessa. L’avversione di d’Annunzio nei confronti dei tedeschi fu confermata anche da Italo Maroni a Michele Calabrese, in un articolo pubblicato dal “Borghese” il 27 settembre 1981: «D’Annunzio fu sempre antitedesco e la sua dichiarazione fu netta e perentoria in tal senso anche quando Mussolini seppe del Patto d’acciaio». E ancora: «Negli ultimi anni della sua vita d’Annunzio era tormentato dalla situazione politica italiana. Se fosse stato vivo certamente avrebbe impedito a Mussolini di allearsi con Hitler. Lo tentò col duce a Verona, prima del fatale incontro al Brennero con il dittatore tedesco». La sola persona estranea che abitò nella dependance del Vittoriale, a Villa Mirabella, durante l’ultimo periodo della Repubblica di Salò per una situazione del tutto fortuita, fu, come ricordato in altra occasione, l’amante del duce, Claretta Petacci. Dopo la ben nota scenata fatta da donna Rachele a Gardone Riviera, davanti al cancello di Villa Fiordaliso, Claretta fu trasferita il 28 ottobre 1944 nella dependance dannunziana per ordine dello stesso Mussolini, sorvegliata da tre ufficiali e da venticinque soldati. Claretta viveva come una prigioniera. Trascorreva le proprie giornate ordinando il carteggio, battendo a macchina le pagine del proprio diario e ascoltando i dischi sui quali erano incisi i discorsi del duce. Claretta, contro la volontà dei familiari, abbandonò la sicura dimora la sera del 18 aprile 1945 per seguire il suo tragico destino. Il Vittoriale venne salvaguardato anche dopo la Liberazione. Italo Maroni testimoniò ancora nell’intervista: «Pur nella conflittualità scatenata dagli eventi post–bellici, furono in molti ad interessarsi perché la Fondazione non avesse a subire danni irreparabili. Primo fra tutti l’onorevole Guido Gonella ch’è veronese e quindi di queste parti. Poi “L’Osservatore romano” ed infine, seppure polemicamente, “L’Unità”». Indro Montanelli, nell’articolo graffiante – va considerato il periodo di antifascismo esasperato in cui venne associato tout court d’Annunzio al regime appena crollato – apparso sul «Corriere d’Informazione»l’1-2 ottobre 1945, confermò, indirettamente che dal Vittoriale, e specificatamente dalla Prioria, non fu asportato nulla durante la Repubblica di Salò. «Ecco affastellati ed esemplarizzati, tutti i credo estetici del cinquantennio che ci precedette. Il sovraccarico di scritte e oggettini è asfissiante: 25.000 se ne presentano all’inventario del povero Momigliano (presidente della Fondazione), sulle cui spalle è caduto il compito della conservazione». Montanelli fu accompagnato nella visita al Vittoriale dall’architetto Gian Carlo Maroni il quale gli rivelò ben pochi segreti. Ad esempio non riuscì a farsi confidare chi e che cosa avessero provocato il famoso Volo dell’Arcangelo del 13 agosto 1922, in seguito al quale il poeta rimase per molti giorni fra la vita e la morte, uscendo praticamente di scena quasi alla vigilia della Marcia su Roma. «D’Annunzio – scrisse Montanelli – aveva parlato il giorno prima (a Milano) da palazzo Marino condannando la violenza: il discorso era chiaramente rivolto contro le squadre fasciste. L’indomani, Finzi, che di quelle squadre faceva parte, venne a Gardone a trovare il poeta in compagnia di altri bravi, fra i quali sembra che figurasse Albino Volpi. Fu dopo la loro partenza che il padrone di casa fu trovato con la testa e una spalla rotte sotto la finestra. Ufficialmente si disse che fu uno svenimento. Ufficiosamente si sussurrò che fosse stata la pianista Baccara a dargli uno spintone, avendolo trovato a cavallo del davanzale mentre faceva gesti osceni dinanzi alla sua giovane sorella. Mussolini accreditò quest’ultima voce e se ne mostrò disgustato». Indro Montanelli così continuò l’articolo, offrendo una notizia che sinora nessuno è stato in grado di approfondire: «L’unica cosa certa è che all’indomani del decesso (di D’Annunzio), un messaggero da Roma fece una minuta perquisizione degli incartamenti e ne fece sparire parecchi, che poi vennero bruciati a palazzo Venezia. Peccato: non per la storia politica, ma per quella del costume, essi avrebbero potuto essere preziosi».

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